di Francesco Gala – L’esito contrastato della serata scaligera per questa prima del Pirata belliniano è certo materia d’intrattenimento per dietrologi ed esperti di cronaca. Qui, invece, nel cominciare, ci si limita ad una constatazione: è proprio con produzioni intente a cercar di risolvere titoli difficilissimi e poco frequentati quali il capolavoro di Bellini che bisognerebbe congedarsi dalla sala lieti comunque, grati all’istituzione che l’ha riproposta e ai contestatori che hanno limitato i dissensi alle sole chiamate al proscenio. Riascoltando questi titoli – o avvicinandoli per la prima volta – si torna, o si comincia, a confrontarli con le registrazioni ormai in massima parte disponibili anche gratuitamente sul web, fonte preziosa per formarsi idee attorno a un’opera dal fascino incomparabile e che continua ad offrire prospettive generosissime sia sul pianto storico che su quello esecutivo, facendo guadagnare allora a questa nuova produzione dignità di tassello da inserire in una lunga storia; tassello che, foss’anche in negativo, serve a far conoscere e discutere attorno al Pirata.
Una nota a margine prima di proseguire. Durante la dotta introduzione all’opera offerta nel ridotto dal professor Della Seta non si è fatta menzione dei tenori che negli anni ’80 hanno interpretato la parte del protagonista in maniera più che convincente: Giuseppe Morino e Rockwell Blake, il primo sotto la sensibile bacchetta di Alberto Zedda. Un errore, dunque, il lasciar credere che dalle “bellurie” vocali dei Gualtiero anni ’50 si sia passati direttamente a redivivi Rubini, specie portando per primo l’esempio di un tenore che non ha mai affrontato il ruolo; si è limitato, infatti, ad inciderne in studio cavatina e cabaletta.
È molto giusto, come anticipavo, che certi tabù scaligeri attorno a titoli problematici siano infranti; non si capirebbe, del resto, perché un’istituzione sovvenzionata dallo Stato si dovrebbe limitare a replicare Don Giovanni e Aide. Soltanto, credo, si vorrebbe che il prezzo dei biglietti di platea e palchi (sala l’altra sera tutt’altro che gremita e altrettanto promettono le repliche) fosse ribassato: quasi sempre si ascoltano più o meno solerti praticanti di un mestiere e non già campioni dell’arte del canto lirico. Qui, però, entreremmo in questioni pure relative al bilancio e allora passiamo altrove.
Ha ottime ragioni, certo, chi afferma che Bellini si rappresenti troppo poco; alla Scala mancava da sedici anni. Ne avrà altrettante chi trovi che nelle grandissime qualità richieste agli interpreti si spieghi in buona parte un’assenza che – è il caso del Pirata, prototipo del melodramma romantico italiano – superava il mezzo secolo.
Un canto con la C maiuscola, anzi con la C gigante è quello che serve ad affrontare in sicurezza le parti dei protagonisti; quello per evocare il quale abbiamo preso in prestito come titolo di questa critica il verso di Imogene. È infatti questo un mar crudele a chi non possieda mezzi tecnici e statura artistica adeguata a dar ragione di una scrittura che aggiunge alle suggestioni del nuovo belcanto, con le sue accensioni virtuosistiche di difficoltà sfrontata, una nuova ricerca di asciuttezza della linea melodica guadagnata da un Bellini che, proprio qui, si afferma uomo nuovo del melodramma italiano, alla conquista di territori espressivi più schietti in accordo coi connotati altamente drammatici dei personaggi.
Il pirata, potremmo affermare, è il suo Tristano. Lo avvicina al capolavoro wagneriano tanto il fatalismo tragico quanto la voluttà di morte, certo, ma soprattutto la sorprendente asciuttezza di una trama senza intreccio, nella quale ad emergere in primissimo piano è lo status più intimo di personaggi che, in ragione di un passato capace di segnare irrimediabilmente il loro destino, lo vivono come promessa di morte invocata per liberarsi. Protagonisti, anche qui, travolti nella comune catastrofe: uno sciagurato, una sventurata e un baritono che pure dietro alla sgargiante sortita rivela l’anima di un uomo tormentato dalla coscienza del fallimento radicale. Per trovare nel rivale Donizetti altrettanto grado di maturità ed essenzialità drammatica bisogna attendere ben oltre Anna Bolena: è Roberto Devereux l’altra vicenda di solitudini esistenziali.
Immediatezza drammatica belliniana, certo. Ma bisogna accordarla con le ragioni di una scrittura lontana anni luce della maniera («col mio stile devo vomitar sangue», confessava il compositore); scrittura che dagli stilemi del belcanto trae rinnovata linfa, sposandola a meraviglia con un’invenzione melodica in accordo stretto con la parola intesa come verità dell’espressione. Insomma, riunire «la forza della declamazione alla gentilezza del canto»; ecco la somma dei fattori che fanno l’unicità e la novità del Pirata e della sua particolare tinta. Quella anzitutto del suo eroe byroniano, innestato ad un crocevia culturale determinante, particolarissimo, tanto per la storia della letteratura drammatica quanto per quella del canto tenorile in lingua italiana. Come ci ricorda Celletti, è questo un allineamento alla tipologia vocale dell’opera francese e della nascente opera nazionale tedesca perché il registro maschile più acuto canta ora gli ideali; e non sono soltanto quelli della giovinezza e dell’amore.
Giovanni Battista Rubini fu il corpo vocale dell’eroe brigante proto-romantico, espresso da una voce dolce e malinconica, e audacissima nelle scalate alle alte vette del pentagramma, capace di squillo ed accenti nei momenti di massima tensione ma al pari sapiente nel render ragione alla melodia estatica della cavatina e della romanza, stando al proscenio con mano sul cuore. Ecco la voluttà della lacrima che presto sarà chiave d’accesso al melodramma compiutamente romantico.
Si è qui fatto cenno ai tenori che hanno affrontato Gualtiero negli anni ’80. Negli ultimi tempi si è segnalato Bros che lo ha approcciato però un poco in ritardo rispetto alla natura non più floridissima. Altrettanto, e a maggior ragione, si dica per Kunde.
Sovradimensionato è il ruolo per il tenore Piero Pretti, protagonista di questa produzione scaligera, al quale, a partire dall’atto secondo, vanno però riconosciute le intenzioni di orientare un mezzo non generoso né accattivante verso dinamiche appena un poco più soffuse, nell’atto precedente essendosi limitato perlopiù al forte e mezzoforte. Ma il suo Gualtiero resta sostanzialmente a tinta unita, incapace di accenti autenticamente nobili e trasognati. In particolare alla sortita, gli acuti sono ghermiti anche a prezzo di contrazioni che irrigidiscono l’emissione. Complice certo la tensione emotiva che accompagna una prima, le difficoltà si sono manifestate in maniera più marcata nella cabaletta, replicata con variazioni che hanno fatto gravitare prudentemente la voce attorno al centro. Se nella cavatina è mancata la capacità dell’interprete di produrre un canto morbido ed angelicato, nei duetti Pretti ha trovato una linea di canto più omogenea per coprire le frasi di andamento elegiaco nelle quali i passaggi di agilità, pur risolti, non lo sono stati con la naturalezza di chi sa trovare ragione espressiva alla frase.
L’interpretazione che commuove, quella che anima la natura malinconica così peculiare del personaggio, è insomma parsa estranea alle sue corde, troppo sorvegliato per alleggerire l’emissione senza perdere in proiezione e cercare sfumature differenti del sentimento. Eppure in «Cedo al destino orribile» la voce ha trovato, insieme a quella dei due colleghi, il fuoco giusto; forse la sola pagina davvero ben riuscita della serata.
Non adatta a ricondurre Imogene nella corretta prospettiva stilistica, Sonya Yoncheva si è assunta l’onere di una parte Méric-Lalande che esige registro grave e centrale gagliardo, facilità di salire al Do con espressione e senza difficoltà ma anche di alleggerire il mezzo per cantare le frasi amabili della cabaletta dell’atto primo e quelle dei duetti col tenore. Non le è estranea, invece, la possibilità di conferire incisività all’accento che è parso nella cantante piuttosto variegato nei recitativi e negli ariosi, scaldati pure da un certo lirismo; non altrettanto si può affermare invece per quanto riguarda le colorature che sono state proposte con scarsa precisione. Quel biglietto da visita che è il recitativo della scena quinta (atto primo) non è stato affatto invitante. Già sul Sol («Sorgete»), infatti, la voce è suonata sabbiosa, opacissima, poi costretta a forzare salendo al Si bemolle e al Do («di Caldora è questa»); altrettanto fra Sol e Si bemolle nella cavatina. Si sono manifestate, insomma, le qualità di soprano lirico dotato di bel timbro, ma scurito alla bisogna col difetto di appannare il centro (il Si centrale di «Lungi, lungi io son rapita»), specie quando la voce ritransita dal passaggio.
Nel corso della serata, poi, l’intonazione non è risultata infallibile anche se non in modo manifesto come nella prima cabaletta; qui, in modo particolare, sulle volatine che nella ripresa il soprano ha spianato con un moto di espressione caricata per preannunciare la precaria salute psichica della protagonista.
È certo che i limiti di questa organizzazione non le consentirebbero di affrontare in sicurezza il vastissimo repertorio che la impegna da tempo compromettendone in modo precoce il mezzo per quanto riguarda flessibilità e rotondità del suono. Infine, sapendo di poter contare su accenti accorati “alla verista” ha cantato il recitativo della grande scena di Imogene ricorrendo a parlati ed effetti che si confanno più al canto di conversazione dell’atto III di Traviata che all’aulica mestizia dell’eroina belliniana.
Poche parole si possono spendere sul baritono Nicola Alaimo che ha esibito sin dalla sortita una voce consumata, dura, forzata, ricorrendo a nasalità e ad inflessioni che si sopporterebbero meglio in un’opera comica; poi, più a suo agio nell’andante del terzetto, ha qui cercato suoni raccolti per modulare il mezzo sul piano. Davvero altrove, insomma, sta il canto dagli accenti dolci ed accorati che era la peculiarità del creatore del ruolo.
Dal podio dirigeva Riccardo Frizza il cui solo merito pare sia stato quello di assecondare il canto con accompagnamenti adeguati alle facoltà degli interpreti e di concertare con equilibrio il finale atto primo. Fa eccezione del tutto la scena prima dell’atto secondo; al Coro delle Damigelle, infatti, un’agogica completamente estranea alla situazione drammatica. Ricordiamo che si riferisce qui il pianto della protagonista resa solo un po’ meno agitata e oppressa; l’altra sera il passo pareva invece voler mimare una giocosa scena campestre.
Più in generale sono mancate alla direzione le atmosfere e la capacità di evocarle pure attraverso la varietà e la sapidità di una scrittura orchestrale che in Bellini va stimolata, sollecitata continuamente. È così che sin dalla Sinfonia il suono è apparso morchioso e gravato da prevedibilità meccanica nel variare le frasi, caratteristiche che si sono accentuate nella grande pagina dell’Introduzione; suggestioni che si vorrebbero intatte per l’Otello verdiano. Qui si dovrebbe trascolorare dai turgori della procella all’abbandono lirico della supplica e poi alla felicità della salvezza; momenti molto differenti che invece non avevano distinzione di tono espressivo ma neppure troppo diverse accelerazioni dell’agogica. Non si sottraeva all’impressione di grevità pure la scena dei marinai, echeggiata da dietro il palco con inopportuni suoni da scène des Enfers.
È utile, ritornando alle interpretazioni più recenti, riascoltare quella di Bruno Bartoletti ma anche quella di Marcello Viotti che ha consegnato al disco certo non la sua lettura migliore ma un Pirata di analitica perizia.
L’impianto scenico ideato per la regia di Emilio Sagi (coproduzione che ha coinvolto addirittura tre teatri) sarebbe buono per almeno altri sessanta titoli del repertorio operistico. S’incarica Sagi di suggerire alcuni luoghi dell’opera tramite il riverbero dei pannelli (la superficie marina e le nuvole); poi, per brevi momenti, appare sul fondo uno squarcio di natura invernale che dovremo intendere come tributo alla Romantik. Molto deludenti i costumi: una convenzionale sfilata di abiti da sposa e un paio da concerto per la protagonista. Meglio il coup del Finale che mette in relazione il monumento funebre con la tenerezza di un neonato stretto al seno materno. Non molto coerenti, poi, le situazioni drammatiche inventate per momenti drammatici essenziali quali il duetto dell’agnizione: Imogene guarda fisso e accarezza il volto di Gualtiero, il pirata che ancora non ha riconosciuto come tale.
Milano Post è edito dalla Società Editoriale Nuova Milano Post S.r.l.s , con sede in via Giambellino, 60-20147 Milano.
C.F/P.IVA 9296810964 R.E.A. MI – 2081845