Renzi ha creato una omologazione diffusa, a cui si oppone il piagnisteo di Bersani. Come si vive il renzismo in Parlamento

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Milano 23 Settembre – Bersani è diventato petulante, vuole il rispetto che gli compete, non vuole essere rottamato perché della “vecchia guardia”. E Verdini, e Berlusconi? Si chiede con una punta di risentimento. E poi proprio a me, con tutte le riforme vere che ho fatto, si riserva un trattamento a dir poco sconveniente? Ed è un atto di protesta, uno dei tanti a scadenza praticamente quotidiana, di quella parte del PD che non si rassegna alla politica autoritaria di Renzi. Rappresenta un’incognita difficile da gestire, un’opposizione difficile da controllare in aula. Perché tra mugugni, fiducie imposte, scambi verbali violenti, prove di dissidenza il Parlamento dà la sensazione di una fluidità incontrollabile e di un malcontento diffuso.

Augusto Minzolini, che prima di essere un parlamentare, un falco di Forza Italia, un direttore del Tg1, è stato per un ventennio il principe del retroscena politico, spiega a Tempi come si viva il renzismo, in Parlamento. «Non c’è un senatore – racconta Minzolini – che creda davvero che la riforma del Senato sia una buona riforma. Eppure pochi lo dicono. Al di là delle chiacchiere, si dimostra soltanto che il nuovo principe è il segretario del Pd».

Secondo l’ex direttore del Tg1, oggi in Italia, c’è «un unico progetto politico, senza contenuti». «Renzi ha fatto del Pd un “partito della nazione” un po’ come la Dc. È un partito trasversale, nella logica di chi lo propone». Ottimo per racimolare consensi, poco efficace per varare le riforme. L’assenza di contrasti tra forze politiche, fra una destra e una sinistra, il ripudio di quello che per tutto l’occidente democratico è il bipolarismo “a fasi”, da molti italiani può anche essere accettato come un dato positivo, ma è un limite: «Se inglobi tutto il dibattito politico, come sta facendo Renzi – spiega Minzolini – si crea, da una parte, un’assenza di alternative, dall’altra, un vuoto nella proposta politica. Il renzismo non è né la destra liberale, né la sinistra. Quali riforme può attuare? Qui sta la contraddizione: Renzi in questo momento dovrebbe agire come il leader di un partito di area moderata liberale, ma chi deve votare le sue riforme è la sinistra. Alla fine può succedere che le riforme si riducano a slogan».

La trasversalità renziana, secondo Minzolini, non offre prospettive, proprio perché non è fondata su un’identità chiara e netta. «A fronte dell’operazione elettorale vincente di Renzi, mancano i contenuti programmatici e i risultati. Guardiamo ai dati: finora non si è risolto nulla, le tasse continuano ad aumentare e non si riesce a frenare il debito». Non giova il fatto che la dialettica politica del paese si riduca a dibattiti interni al Pd. I giornali si guardano bene dal dirlo, perché? Perché stanno a sinistra? «No. Ma perché si crede, come è avvenuto prima con Monti e poi con Letta, che questo sia l’unico governo possibile. Una omologazione diffusa, eccetto qualche rara eccezione, – osserva Minzolini – che rende assurda l’esistenza dei giornali».

Il rischio è che se Renzi fallisce, non si parlerà più di “riformismo” per anni. «Il premier aveva annunciato una riforma al mese, ora siamo passati a una ogni mille giorni. Si chiama “annuncite”: Renzi annuncia e non riesce ad accompagnare le sue promesse con i fatti». Minzolini ha le idee chiare sugli effetti del fallimento: «Come con Monti l’opinione pubblica ha sputtanato la figura dei “tecnici” e con Letta si è sputtanata l’idea di “unità nazionale”, con Renzi si sputtanerà il “riformismo”».

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