Milano 26 Gennaio – Un’emozione intensa e vibrante: immobili, gli spettatori, quasi sospesi e sopraffatti, ascoltano la propria anima nella dissolvenza di una storia, di una vita, che è devastazione cerebrale e coraggio, ineluttabilità e forza. Questa alla fine della proiezione di Still Alice, la reazione del pubblico in sala, nel silenzio commosso di una partecipazione umana che va al di là della indubbia bellezza estetica della narrazione, al di là del dialogo lineare, senza retorica o pietismo, perché il messaggio è la verità di una malattia, l’Alzheimer, che non perdona, è il coraggio di una donna che sa lottare, giorno dopo giorno, per non arrendersi passivamente all’inevitabile. Ma l’adesione esemplare al personaggio va ascritta a Julianne Moore, alla sua misurata e intensa interpretazione, alla sua sensibile ed efficace immedesimazione. Julianne Moore per cento minuti è Alice e non potrebbe essere diversamente, tale è la sua profonda capacità di essere vera e plausibile, con una identificazione che non concede nulla al sensazionalismo, con una delicatezza che è intelligenza e grazia.
Alice all’inizio del film compie cinquant’anni, un presente di affermazioni personali come Docente presso la Columbia University di linguistica e una famiglia unita, esemplare. Il suo sorriso è solare, di chi è compiutamente realizzato nella professione e negli affetti. Improvvisamente lo smarrimento, il vuoto di memoria, la sensazione di perdere identità e controllo. Il neurologo dà un verdetto straziante: Alzheimer precoce e genetico. E quel linguaggio alla base dei suoi studi e della sua straordinaria carriera, paradossalmente è la prima vittima della malattia. Le parole dimenticate, inafferrabili sono la prima percezione. Dice “Posso vedere le parole galleggiare davanti a me e non riesco a raggiungerle”. E il declino si compie, nonostante il coraggio, nonostante gli accorgimenti messi in atto per prolungare una memoria che si spegne ineluttabilmente. “Non so più chi sono”, dice, quando ancora squarci di luce momentanea le permettono di interagire con la realtà. E come un fiore che appassendo dimentica colori e profumo, la sua vita intellettiva si allontana e si spegne, con il sorriso di un’anima persa nel buio, con lo sguardo di chi non ha più domande né risposte.
Il film è tratto dal libro “Perdersi” della Neuroscienziata Lisa Genova.
I due registi, Wash Westmoreland e Richard Glatzer hanno saputo imporre sensibilità, equilibrio e sobrietà alla narrazione, probabilmente perché vivono una storia personale simile, avendo uno dei due scoperto, pochi mesi prima dell’inizio delle riprese, di soffrire di Sla.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano