Milano 30 Maggio – I giorni fuggono come ore, le ore diventano minuti e i minuti secondi quando la mattina escono dal carcere e tra i padiglioni di Expo assaporano il gusto della libertà cosmopolita; in cella, la sera, le lancette sembrano ferme. Il tempo corre a due velocità per Antonio, Francesco e Salvatore. Sono tre degli 83 i detenuti che partecipano al progetto nato da un accordo tra Tribunale di sorveglianza di Milano e Provveditorato lombardo dell’amministrazione penitenziaria e finanziato dal Ministero della giustizia con 600 mila euro della cassa delle ammende, quelle versate dai condannati. Dopo un percorso riabilitativo nelle carceri di Opera, Bollate, Busto Arsizio e Monza, hanno ottenuto di scontare la pena lavorando all’esterno durante il giorno. Li vedi in turni di sei ore, dalle otto alle 17, tra le migliaia di visitatori in coda agli ingressi mentre danno informazioni, indicano percorsi e distribuiscono mappe. Prendono 500 euro al mese, la stessa «mercede penitenziaria» degli altri detenuti che lavorano.
«Per me sono milioni perché così non mi sento un detenuto. Qui ho un rapporto con il mondo intero», dice Antonio Vitiello, un napoletano di 52 anni che per molti reati di droga si è già fatto una decina di anni e ne deve fare altri quattro a Bollate. Quando stava a Poggioreale (Napoli), trascorreva 23 ore in cella e una all’aria, ora sta all’uscita della metropolitana. Potrebbe scappare saltando sul primo treno, nessuno lo controlla perché non è previsto: «E chi me lo fa fare? Se faccio un’evasione, quando può durare? Un mese, due, tre? Poi torno in prigione». Le statistiche dicono che il 70 per cento dei detenuti che hanno espiato l’intera pena in carcere riprende a delinquere, percentuale che crolla al 18 tra coloro che hanno lavorato. Vuol dire minori costi per la società, ma in Italia lavora solo poco più del 10 per cento dei quasi 54 mila detenuti. A Francesco Catanzaro di anni ne hanno dati 17 per rapine in banca. Ha imparato le lingue scappando all’estero. «Alla mattina un altro po’ dico buongiorno anche ai muri. Il primo giorno mi sono messo a piangere», racconta entusiasta mentre lungo lo stradone di Expo la folla dei visitatori del mattino avanza come un’armata vociante e spensierata.
I detenuti che lavorano qui hanno fatto un corso su relazioni con il pubblico, pronto soccorso, logistica e temi dell’esposizione. «Per esempio, ci hanno insegnato a non fare cose che potrebbero disturbare persone dalla cultura diversa dalla nostra». Una cosa che lo ha davvero reso felice: «Da anni mia figlia mi pagava il caffè, ora sono io che glielo offro». Perché i soldi «”lavorati” sono tutta un’altra cosa», afferma Salvatore Messina, 28 anni, 4 anni e otto mesi per spaccio di cocaina. Con la droga faceva 300/400 euro al giorno: «Soldi facili ai quali non dai valore e alla fine non arrivi a niente. Prima o poi ti arrestano». Come va? «Ti viene voglia di vivere. Vedi la libertà, ma non ce l’hai, perché quando smetti di lavorare torni in galera». Libertà, argomento principe tra i detenuti. «In carcere non sei nessuno, sei un numero. Fuori sei una persona» sussurra mentre smista il traffico all’ingresso per vip e forze dell’ordine.
Il rapporto con la Polizia penitenziaria, che in Expo ha un ufficio, segue un percorso quasi contro natura. «Tutto questo – sostiene Francesco – serve a noi e a loro, che partecipano alla nostra esperienza e aiutano quelli che sono stati troppo dentro e non sono più abituati alla libertà. È bello salutarsi la mattina, confrontarsi e discutere». Sognano tutti un lavoro dopo il carcere. Francesco: «Io sto pagando. Vedremo quando esco cosa farà la società». (Corriere Milano)
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