Milano 1 Giugno – Sulle questioni militari in Italia vige la regola del silenzio. I cittadini con le stellette appartengono ad un microcosmo chiuso ed impenetrabile, impossibile per i più da decifrare e comprendere.
Il potere politico ha poco spazio, le decisioni sulle questione importanti sono prese dalle gerarchie militari. Può cambiare il ministro ma poi chi decide veramente sono gli alti ufficiali di Palazzo Baracchini.
Il caso degli F35, ad esempio, è emblematico. Dal 1998, anno in cui venne firmato l’accordo con gli Stati Uniti per il loro acquisto, ad oggi si sono succeduti innumerevoli governi di ogni colore politico. Mai nessuno che si sia sognato di mettere in discussione questo programma d’armamento costoso e dalla dubbia affidabilità che ha l’avallo dei Generali.
I silenzi, e in questo caso le omissioni, ritornano nella triste storia dei decessi legati all’uso dell’uranio impoverito in Kosovo. Com’è noto, gli Stati Uniti fecero massiccio uso durante la guerra contro Milosevic di munizioni anticarro all’uranio impoverito, utilizzate per il loro alto potere penetrante. I rischi delle esposizioni da uranio impoverito, alle Autorità italiane, furono noti da subito: nel 1999, quando al termine del conflitto prese il via la missione di pace internazione KFOR, l’U.S. Army divulgò un’informativa rivolta ai vertici militari di tutti i Paesi partecipanti sulla pericolosità delle neoparticelle di uranio impoverito, responsabili di provocare carcinomi letali. Il documento illustrava come difendersi dai rischi dovuti al contatto con l’uranio, allegando anche una cartina dove erano segnalate le zone bombardate con questo tipo di munizioni.
Purtroppo lo Stato Maggiore della Difesa ha per anni sottovaluto questi rischi, minimizzando sempre i pericoli. Per ironia della sorte il settore di competenza italiana, la provincia di Pec, era quello dove maggiore era stato l’uso di questi proiettili.
Ad oggi sono circa 4000 i soldati italiani reduci dalla missione all’estero che hanno avuto un tumore. Molti di loro nel frattempo sono deceduti.
La battaglia legale per vedersi riconosciuto un risarcimento dal Ministero della Difesa è stata durissima. Davide contro Golia. I 600 militari ammalati che hanno intentato una causa si sono trovati di fronte ad un muro di gomma. Il Ministero, tetragono sulle sue posizioni, ha sempre negato ogni nesso di casualità fra l’esposizione all’uranio impoverito e l’insorgere della patologia tumorale. I fronti aperti sono stati diversi, giungendo negli anni anche ad alcune sentenze di condanna nei confronti dell’Amministrazione sia in sede civile, amministrativa e contabile.
La svolta definitiva e clamorosa è giunta, però, la scorsa settimana, allorché è passata in giudicato la sentenza della prima sezione della Corte di Appello di Roma, presidente Mariangela Cerere e relatore Lucia Fanti, che confermava la sentenza n. 24951 del 2009 del giudice del Tribunale di Roma Corrado Cartoni che aveva condannato il Ministero della Difesa al risarcimento del danno. Clamorosa non solo per l’entità del risarcimento record (1 milione 300mila euro oltre al danno da ritardato pagamento) accordato ai familiari di un militare italiano ammalatosi e deceduto per un tumore contratto dopo aver partecipato alla missione KFOR. Ma anche per le motivazioni con le quali il Ministero della Difesa è stato condannato a pagare. Innanzitutto, perché la decisione della prima sezione civile della Corte d’Appello di Roma conferma, come già accertato dal Tribunale, “in termini di inequivoca certezza, il nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale”. Ma, sanziona, come già fatto dal giudice di primo grado, anche la condotta dei vertici delle Forze Armate per aver omesso di informare i soldati “circa lo specifico fattore di rischio connesso dell’esposizione all’uranio impoverito”.
Dice l’avvocato romano Angelo Fiore Tartaglia che rappresentava in giudizio i familiari del militare morto e che da anni porta avanti, unico in Italia, questo genere di cause: “Fino alla decisione della Corte d’Appello, anche sulla base delle conclusioni delle varie commissioni parlamentari che si sono occupate dei casi di tumore da esposizione all’uranio impoverito che hanno coinvolto diversi militari italiani, il nesso di causalità era confinato nel campo della probabilità. Questa sentenza, invece, stabilisce il principio dell’inequivoca certezza, cioè che la causa della malattia contratta dal militare poi deceduto è proprio l’esposizione a questa sostanza”.
Oltre alla valanga di risarcimenti che lo Stato dovrà pagare, si aprono adesso scenari giudiziari imprevedibili. “La sentenza ha accertato non solo che i vertici militari erano a conoscenza dei rischi derivanti dall’esposizione all’uranio impoverito, ma anche che non hanno fatto nulla per prevenirli. Una decisione – prosegue il legale – che potrebbe dar luogo a responsabilità penale per reati gravi perseguibili anche d’ufficio”.
Nelle prossime settimane sapremo se la condotta dei vertici militari diventerà materia d’interesse anche per la Procura della Repubblica: lo si deve alle vittime incolpevoli e ai loro familiari.
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Nato a Roma, laureato in Giurisprudenza e Scienze Politiche,
ha ricoperto ruoli dirigenziali nella Pubblica Amministrazione.
Attualmente collabora con il Dipartimento Scienze Veterinarie e Sanità Pubblica dell’Università degli Studi di Milano. E’ autore di numerosi articoli in tema di diritto alimentare su riviste di settore. Partecipa alla realizzazione di seminari e tavole rotonde nell’ambito del One Health Approach. E’ giornalista pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Lombardia.