Milano 16 Giugno – «La vera differenza è nella facilità con cui ricorrono alla violenza. Le organizzazioni criminali tradizionali non hanno alcun tipo di scrupolo morale nel compiere atti di violenza: ma lo fanno se vale la pena, all’interno di un calcolo, magari rozzo, tra costi e benefici. Alle bande di origine sudamericana che operano a Milano questo calcolo è estraneo. La loro violenza non ragionata è il vero pericolo».
Sono passate poche ore da quando il capo della squadra mobile Alessandro Giuliano ha consegnato alla Procura i salvadoregni accusati di avere aggredito con ferocia un capotreno delle Ferrovie Nord. Il delitto ha fatto inorridire Milano, e ha sollevato un mare di polemiche sulla sicurezza sui mezzi di trasporto. Giuliano si guarda bene dal minimizzare la gravità della situazione. Ma chiede che non si parli delle pandillas latine come di un fenomeno fuori controllo: «Proprio la rapidità con cui siamo riusciti a identificare i presunti responsabili è la prova che abbiamo una conoscenza del fenomeno che ci permette di inquadrare i fatti criminosi e di individuarne i responsabili».
Eppure i ritratti di bande come l’MS13 che emergono in queste occasioni sono impressionanti. E’ inevitabile chiedersi se siamo di fronte a gang in grado di impadronirsi della scena criminale metropolitana come negli Stati Uniti.
«La risposta è: no. Siamo di fronte ad organizzazioni criminali sui generis, che scimmiottano quelle assai più pericolose e strutturate attive in America, ma senza avvicinarsi al loro peso specifico. Si tratta di nuclei autonomi che ricevono una qualche forma di investitura, composti in larga parte di giovani e giovanissimi che non sono in grado di organizzare attività criminali a livello, diciamo così, professionale».
Però sono compatti, organizzati, violenti.
«É vero. Ma i reati cui sono dediti sono piccole rapine, il cellulare, il portafoglio, soprattutto a fine di autofinanziamento dell’organizzazione. Ed è vero che sono capaci di gravi esplosioni di violenza ma soprattutto nei confronti di bande rivali. La loro vera finalità è la supremazia nell’ambito della loro comunità di riferimento. Se vanno in giro armati di machete, come spesso accade, lo fanno per sistemare i conti se incontrano appartenenti a bande rivali».
Francamente, non è un quadro tranquillizzante.
«Non lo è affatto: sono a tutti gli effetti delle formazioni delinquenziali, e per questo hanno destato la nostra attenzione. Da più di dieci anni, ancora prima che arrivassi io, abbiamo una squadra specializzata che si occupa solo di loro e che conosce uno per uno, nome per nome gli appartenenti».
Però poi quando li arrestate vengono liberati nel corso di uno o due anni, come uno degli assalitori del capotreno.
«Peligro nel 2013 venne colpito da un misura meno pesante del carcere, cioè il collocamento in comunità, perché era minorenne».
Ma ad essere minorenne è una grande parte dei membri delle pandillas. Vuol dire che punirli è impossibile perché il codice li tutela?
«Non è esatto. Ci sono dei minorenni, ma la grande parte è nei primi anni della maggiore età, e si arriva anche fino ai trent’anni. No, le sanzioni sono modeste perché per ora sono prevalentemente modesti i reati».
L’impressione è che in alcune zone di Milano puntino al controllo del territorio come i mafiosi.
«No, non sono assolutamente in grado di esercitare un controllo del territorio degno di questo nome. La loro aggressività è rivolta quasi sempre al loro interno: contro bande rivali, o contro i membri della banda che si ritiene abbiano violato una delle innumerevoli regole che si danno, o che hanno cercato di allontanarsi dalla banda. Per loro questo è impensabile: quando hai scelto di entrare nel clan, non puoi uscirne. I casi come quello di venerdì, in cui a venire colpiti sono vittime esterne alla comunità, sono rari».
Oggi, lei dice, non hanno caratura criminale. Ma domani? Non sta crescendo una generazione di giovani criminali violenti pronti a diventar più pericolosi?
«Non una generazione perché il fenomeno riguarda poche decine di persone. Dopodichè sì, il pericolo di una crescita di qualità criminale c’è». Luca Fazzo (Il Giornale)
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