L’arte del tatuaggio: chi se li fa vuole essere unico ma uguale a tutti

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Milano 21 Luglio – Possono essere nomi, parole o frasi significative. Oppure disegni elementari, come una farfalla o una stella, o enigmatiche rappresentazioni tribali. Alcuni tatuaggi sono veri e propri capolavori artistici, altri sono decisamente imbarazzanti, magari la conseguenza di una follia del momento. C’è chi li nasconde in parti poco visibili del corpo, chi invece li sfoggia spudoratamente sul viso, sul collo. In alcuni casi si fa addirittura fatica a trovare un pezzo di pelle non tatuato. Possono costare dai 50 euro o raggiungere diverse migliaia di euro, a seconda del valore dell’opera e dell’artista tatuatore. Nonostante siano molto diffusi – basta fare un giro su una qualsiasi spiaggia per rendersene conto – pochi sanno che, se non eseguiti in sicurezza o senza averci pensato bene, possono creare problemi e danni anche molto gravi alla salute.

CI SI TATUA PER OMOLOGARSI E PER DIFFERENZIARSI

Sono essenzialmente due i fattori psicologici dietro questa sorta di”tatoo-mania”. «La prima è quella che possiamo definire “mirroring psicosociale”: si vuole appartenere a un movimento culturale distintivo molto diffuso e quindi si decide di uniformarsi e farsi uno o più tatuaggi», spiega Massimo Di Giannantonio, docente all’Università degli Studi di Chieti Gabriele D’Annunzio. «L’altro motivo – aggiunge l’esperto – è più legato alla scelta del tipo di tatuaggio: si sceglie un tatuaggio piuttosto che un altro per rendere visibili agli altri un elemento o più che caratterizza la propria personalità».

In pratica, da un lato si cerca di uniformarsi a un orientamento generale, dall’altro ci si vuole distinguere dalla massa scegliendo un tipo di tatuaggio e non un altro.

IL TATUATORE PROFESSIONISTA HA UNA SUA ETICA

Tuttavia, quando le richieste appaiono esagerate, strane o anche solo avventate, un tatuatore professionista si rifiuta di prendere in mano l’ago. «Ogni giorno rifiuto di eseguire qualche tatuaggio», riferisce Marco Manzo, titolare dello “Studio Tribal Tatoo” di Roma e docente in materia di igiene sul lavoro nei Corsi professionali. «Ad esempio, quando una persona molto giovane chiede un tatuaggio sul collo, sulla testa o sulle mani, cioè su parti troppo visibili, preferisco rifiutare per evitare di fare qualcosa di cui poi ci si può pentire», aggiunge Manzo. I tatuatori seri infatti rispettano la cosiddetta “etica professionale”. «Non tatuiamo, ad esempio, soggetti sotto effetto di psicofarmaci o alcol», spiega Manzo. L’etica di un tatuatore è anche quella che lo spinge a lavorare in sicurezza e nel rispetto delle norme di igiene. «Se si rispettano le norme igienico-sanitarie, stabilite dal ministero della Salute, il rischio che un tatuaggio possa provocare problemi alla salute è praticamente uguale a zero», assicura Manzo. «Tuttavia, ci sono ancora troppi tatuatori abusivi che possono mettere in pericolo la salute delle persone ogni volta che prendono un ago in mano», aggiunge.

TATUAGGI FATTI MALE AUMENTANO IL RISCHIO INFEZIONI

Se infatti un tatuaggio non viene effettuato secondo le regole, le probabilità di contrarre un infezione o di subire danni al fegato sono molto alte. «Si può stimare che chi si sottopone a un tatuaggio ha un rischio 3,4 volte più alto di contrarre l’epatite C rispetto a chi non ci si sottopone», spiega Carla Di Stefano, ricercatrice dell’Università Tor Vergata di Roma, che ha di recente condotto una ricerca sull’argomento. Lo scopo della ricerca è quello di informare gli adolescenti che sottoporsi a tatuaggi in locali non certificati senza rispetto delle norme igieniche il rischio di contrarre epatite B e C, e il virus dell’Aids, non è trascurabile. Inoltre l’inoculazione nella cute di sostanze chimiche non controllate può portare a reazioni indesiderate di tipo tossicologico o di sensibilizzazione allergica. L’infezione più diffusa è quella da Hcv, responsabile dell’epatite C: si trasmette attraverso il riutilizzo di aghi monouso, materiali non sterilizzati e il riutilizzo d’inchiostro contaminato con sangue infetto. «L’epatite virale – spiega l’esperta – è un’infiammazione del fegato causata dall’infezione, silente o sintomatica, da parte di alcuni virus tipici del tessuto epatico ma solo alcuni di essi possono stabilirsi nell’organismo in modo persistente, causando danni cronici al fegato».

I CASI DI EPATITE C: 10 % DOVUTI AI TRATTAMENTI ESTETICI

Nella forma acuta, la malattia si manifesta con disturbi di tipo influenzale, spesso asintomatico, mentre nella sua forma cronica l’infiammazione permanente del tessuto epatico è dovuta all’incapacità del sistema immunitario di eliminare il virus epatitico. Nella metà circa dei pazienti l’infezione cronica causa lesioni progressive del fegato e una parte di questi pazienti può sviluppare la cirrosi». Si stima che nel nostro Paese una quota di casi di epatite C acuta superiore al 10 per cento è attribuibile ai trattamenti estetici.

CANCELLARE UN TATUAGGIO NON E’ FACILE

Meno gravi, ma certamente più diffusi, sono i casi di ripensamento. Secondo l’Associazione Italiana di Chirurgia Plastica Estetica (Aicpe), solo nel 2014 sono stati 12mila i pentiti. «Togliere un tatuaggio è molto più difficile che farlo, e non sempre è possibile riuscirci», afferma Luca Siliprandi, chirurgo plastico vice presidente di Aicpe. «I tatuaggi si fanno spesso da giovani – continua – senza pensare che è un segno che ci accompagnerà per sempre. Molti si stufano, cambiano gusti e passioni e quindi decidono di cancellare il disegno o la scritta. Alcuni lo fanno per lavoro: non avere tatuaggi o piercing è obbligatorio per chi decide di entrare nell’esercito o corpi di polizia, carabinieri, finanza». Ci sono però degli elementi da tenere in considerazione.

CI VOGLIONO DALLE 6 ALLE 8 SETTIMANE PER FARLO SPARIRE

Innanzitutto non sempre è possibile fa scomparire il laser. «L’efficacia del trattamento dipende da colore, profondità, densità e tipo di pigmento e dal fototipo del paziente, cioè dal colore della sua pelle (bianca, olivastra, nera)», afferma Siliprandi. La strada migliore da seguire è quella di rivolgersi solo a professionisti esperti del settore, in grado di proporre tecniche moderne. «Al momento la tecnica più efficace è rappresentata dai laser q-switchati (laser Q-S), strumenti che producono un impulso laser di brevissima durata”, dice il vicepresidente di Aicpe. «Questo distrugge le cellule entro le quali sono accumulati i granuli di pigmento – prosegue – spezzandoli in frammenti più piccoli che vengono smaltiti nei liquidi corporei o da cellule migranti nel corso dei giorni e delle settimane successive. Ripetuti trattamenti, distanziati da un congruo periodo di tempo (in genere 45-60 giorni) per consentire la spontanea rimozione dei pigmenti, consentono di perseguire la progressiva scomparsa del tatuaggio».

SUBITO DOPO LA RIMOZIONE NON CI SI DEVE ESPORRE AL SOLE

E’ inoltre necessario scegliere bene il periodo dell’anno per farlo. «Rimuovere un tatuaggio – spiega l’esperta – è un processo lungo: sono necessarie diverse sedute distanziate di circa 6-8 settimane. L’esposizione della cute trattata al sole o a lampade abbronzanti deve essere evitata almeno per un mese, avendo cura, nelle corso delle prime esposizioni, di utilizzare creme a filtro solare ad alta protezione».

IL FANTASMA DEL TATUAGGIO

Più è grande il tatuaggio, più tempo sarà necessario. Il trattamento con laser Q-S è però doloroso. Per questo di norma viene applicata della crema anestetizzante 30 minuti prima della seduta. Più la pelle è scura, più difficile sarà la rimozione. «Chi ha la pelle olivastra, mulatta o nera o comunque di colore più scuro del tatuaggio da rimuovere corre un forte rischio di alterare la pigmentazione – spiega Siliprandi -. Dopo il trattamento si formano sulla pelle delle bollicine. È indicato trattare la pelle con unguenti antibiotici e applicare una medicazione occlusiva con garza vaselinata per uno o due giorni, fino alla formazione delle croste. Infine, si deve sapere che, in corrispondenza del tatuaggio rimosso, potrebbe rimanere una sorta di ombra chiamata “fantasma del tatuaggio”. Può durare alcuni anni o anche per sempre».  Valentina Arcovio (la Stampa)

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