Milano 22 Luglio –Anche se negli ultimi 24 mesi la quota dell‘interscambio ha subito una forte contrazione, l‘Italia si è confermata nel 2014 il principale mercato di riferimento per la Libia, tanto sul piano delle importazioni quanto su quello delle esportazioni. Roma invia a Tripoli principalmente prodotti derivanti dallaraffinazione del petrolio (rappresentano il 54,8 dell’export totale, per un valore di 1.211 milioni di euro); macchine di impiego generale (4,3 per cento per un valore di circa 95 milioni); apparecchiature di cablaggio (3,4 per cento per 76 milioni); macchine per impieghi speciali (3 per cento per 67 milioni); prodotti di colture permanenti (2,4 per 52 milioni) e frutta e ortaggilavorati e conservati (2,3 per cento per 51 milioni). Più del 90 per cento delle importazioni italiane, invece, è composto da petrolio greggio e gas naturale (rispettivamente il 47,1 per cento per un valore indicativo di 2.138 milioni di euro e il 44,4 per un valore di 2.016 milioni). Un altro 6,7 per cento (304 milioni) comprende i prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio; un 1,1 per cento (51 milioni) i prodotti della siderurgia; mentre prodotti chimici di base, materie plastiche e gomma sintetica da un lato e metalli di base preziosi e altri non ferrosi e combustibili nucleari dall’altro coprono, rispettivamente, lo 0,3 e lo 0,1 dell’import italiano, che corrisponde a un valore complessivo di circa 20 milioni di euro. In altre parole, l’Italia dipende sempre meno dal petrolio libico: un bene, perché la situazione non sembra destinata a migliorare, ma anche un dato negativo sul piano economico, perché ci dobbiamo approvvigionare altrove, con costi di trasporto maggiori. Senza dimenticare che anche molti altri Paesi produttori di petrolio non navigano in acque tranquille.
Le oscillazioni dell’interscambio
Secondo i dati diffusi dal Ministero dello Sviluppo Economico, nel periodo che va da gennaio a ottobre 2014 la quota di importazioni italiane dalla Libia ha raggiunto il suo minimo storico, passando dal 27,4 per cento del 2010 a un ben più contenuto 16,4 per cento. Le importazioni libiche dall’Italia, invece, dopo il crollo registrato a cavallo tra il 2011 e il 2012 sono tornare ai livelli del passato, recuperando una quota di mercato di poco inferiore al 16 per cento. A livello di interscambio, infine, i 15 milioni del 2012 sono scesi sotto gli 11 nel 2014 e addirittura sotto i 7 nei dodici mesi successivi.
Tutte queste oscillazioni hanno come unico responsabile la forteinstabilità politica che contraddistingue oggi il paese. Il crollo del 2011 è stata una diretta conseguenza dell’insurrezione controGheddafi. I problemi di oggi dipendono dalla sempre maggiore presenza dell’Isis nel paese.
Perché gli interessi economici italiani in Libia sono a rischio
Con questi numeri e con questi presupposti, è evidente da un lato che una nuova ondata di tensioni non potrà che danneggiare ulteriormente la posizione italiana nel paese (anche l’Ambasciata è stata costretta a chiudere il 15 febbraio scorso per motivi di sicurezza e i connazionali invitati a lasciare il paese al più presto). Dall’altro, gli italiani che continueranno a lavorare in Libia rischiano di diventare facili bersagli, come è successo ai dipendenti della società di costruzioni Bonatti Gino Tullicardo, Fausto Piano, Filippo Calcagno e Salvatore Failla.
Chi sono gli italiani in Libia
Scoprire quali sono le aziende che ancora operano in Libia e con quale giro d’affari è difficile, ma secondo i dati dell’Istituto del Commercio Estero e della Camera di Commercio ItalAfrica Centrale sarebbero circa 130 le presenze italiane nel paese. Tra le principali, oltre all’Eni, nel settore del petrolio e del gas operano Snam Progetti, Edison, Tecnimont, Saipem. Impregilo e Bonatti. Garboli-Conicos, Maltauro, Enterprise sono attive nel comparto delle costruzioni e delle opere civili; Techint e Technip in quello dell’ingegneria; Iveco, Calabrese, Tarros, gruppo Messina, Grimaldi e Alitalia nei trasporti; Sirti e Telecom Italia nelle telecomunicazioni. Seguono Martini Silos e Mangimi nel settore dei mangmi; Technofrigo e Ocrim in quello della meccanica industriale; Enel Power come centrale termica; Tecnimont, Techint, Snam Progetti, Edison, Ava, Cosmi, Chimec, Technip e Gemmo nell’impiantistica. La comprensibile riservatezza che circonda le informazioni sulla residua presenza italiana fa però supporre che il personale, ancora una volta per motivi di sicurezza, sia stato ridotto all’osso. (Panorama)
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