Itinerari nella Milano di Caccia Dominioni

Cultura e spettacolo

Milano 23 Luglio – Burbero, austero, nobile, aristocratico, parsimonioso, schivo e nemico del palcoscenico, stimato quanto non apprezzato per il suo carattere chiuso, Luigi Caccia Dominioni è certamente tra i più autorevoli interpreti di una tradizione milanese e lombarda che ha sempre mirato alla disciplina e alla realtà.

Il risultato è stato un’attenta quanto paziente sintonia con i luoghi alla ricerca di soluzioni formali per ricondurre il tutto a una logica architettonica, sapiente risultato di una teoria che ancora si sposava con la tecnica e l’uso colto dei materiali d’opera.

Laureato al Politecnico di Milano, amico di Gardella, Albini, Belgiojoso, Gregotti, Magistretti, Figini e Pollini, Muzio, Rosselli, Castiglioni, Ponti, Portaluppi, Rogers, Zanuso, Rimini non ha mai aderito un veri e propri movimenti ma ha sempre rappresentato, seppure in chiave moderna, la buona borghesia moderna. A un certo punto della sua carriera sembra stabilire un punto di contatto con il «rigore» del modello razionalista e le libertà d’espressione della «proposta organica», senza mai tralasciare la sua convinzione nei riguardi di un preesistente ambientale. Ne sono testimoni gli edifici di Corso Europa, l’andamento sinuoso della Galleria Strasburgo, i portici e giardini a piano terra.

Sua anche la sistemazione di piazza San Babila con la Fontana a forma di «budino», difficile da digerire per i milanesi abituati alle sculture di Consagra ora abbandonate nella via che da Palazzo Giureconsulti porta in Duomo. Vanno ricordati i condomini di via Nievo, piazza Carbonari e Massena per le libere composizioni ortogonali di fronti. Non c’è dubbio che Luigi Caccia Dominioni oggi non si ritroverebbe negli ultimi sconvolgimenti della città, un nuovo che ha poco a che fare con l’architettura con la A maiuscola e piani urbanistici che ammazzano sia per la percorribilità che per la veduta i nostri monumenti storici e novecenteschi.

La sua opera è fatta di memoria, invenzione e intuizione, assertore quale era del ruolo centrale della «pianta» quale matrice generativa dell’intero progetto. A sostenerlo è Maria Antonietta Crippa all’interno del saggio di Alberto Gavazzi e Marco Ghilotti, che hanno cercato attraverso i due volumi editi dall’Ordine e della Fondazione degli architetti (Solferino Edizioni, 14 euro e 12,50 euro, ricchi di documentazioni fotografiche e disegni. Testi anche in inglese) di costruire un itinerario urbano tra identità personale e radici storiche. Va detto che i volumi sono a cura di Alessandro Sartori e Stefano Suriano mentre le fotografie sono di Vincenzo Martegani.

Con la rispettosa esecuzione dei suoi progetti, Luigi Caccia Dominioni ha sempre mantenuto fede alla «modernità delle radici», come dimostrano le possenti cubature eleganti come gli uffici e le abitazioni delle ex cartiere Binda, un’opera della fine degli anni Sessanta, il Quartiere della Viridiana, il complesso di via Tiziano del 1968 (quello sì che era un «bosco verticale»), l’eleganza e la forza dei volumi che troviamo specie all’interno del teatro dei Filodrammatici (1962 – 69). L’edificio di corso Monforte, Casa Geromazzo, Casa Pirelli del 1962, il Palazzo di Via Santa Croce (1960), il Convento di Sant’Antonio dei Frati Francescani (1960) in via Farini, la casa dai magnifici scaloni di via del Lauro (1963), l’edificio del 1958 di Santa Maria alla Porta, quello di Corso Italia 22, via Vigoni e Via Nievo.

Un’attenzione particolare va alla sua casa e studio di piazza Sant’Ambrogio, un grande edificio moderno (1947-49) con dei «piloti» con alcuni parti della facciata rientranti, ma anche l’Istituto della Beata Vergine Addolorata di Via Calatafimi del 1946-54. E poi il Quartiere di San Felice (Milano2), gli edifici parrocchiali di via Catena, quelli di via Della Spiga degli anni Settanta, il Campus del Politecnico di Milano di via Golgi (1996), tre supermercati Esselunga, la Chiesa di san Giorgio del 2000 a Seguro e la risistemazione del sagrato della Basilica di Sant’Ambrogio.

Infine il non riuscito altare della medesima Basilica fatto di piastrelle «da bagno bianche», curve e lisce, togliendo la vecchia pavimentazione intorno all’altare e le antiche balaustre. Un intervento molto criticato. Ma un errore minimo lo si può anche perdonare considerando anche le strutture edificate in Lombardia. Luciana Baldrighi (IL Giornale)

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