Milano 25 Luglio – Forse, dall’alto di un quarto di secolo di sperimentazione, è venuto il momento di dire che il “nuovo” processo penale italiano è stato un clamoroso fallimento. Chi c’era si ricorda bene quanto veniva gridato ai quattro venti nell’ottobre 1989, quando (evviva!) entrò in vigore la riforma del codice di procedura. Si diceva: ora basta con la prevalenza dell’accusa, finalmente avremo processi equilibrati, “all’americana”, meglio ancora “alla Perry Mason”.
Si inneggiava: i riti alternativi faranno presto breccia e ridurranno l’intollerabile carico dei processi. Si assicurava: finiamola con l’inutile diarchia tra giudice istruttore e pubblico ministero, ora le indagini preliminari concederanno al pm, finalmente libero di agire entro regole severe e continui controlli del gip (il mitico giudice per le indagini preliminari), un tempo ragionevole per indagare; comunque dopo un massimo di due anni tutto finirà sul tavolo di un giudice terzo, che eviterà abusi, eccessi, lungaggini. In un’orgia di ottimismo positivistico, pareva a tutti che la rinnovata dialettica tra accusa e difesa avrebbe schiuso le porte a un’era di perfetta giustizia.
Ebbene, quasi 25 anni dopo si può dire che purtroppo non è stato così. Le indagini preliminari sono spesso una mostruosa macchina da guerra, priva di un controllo legale, se non addirittura di quello democratico. Troppi gip firmano automaticamente e a raffica i prolungamenti delle indagini (tant’è che il 65 per cento delle prescrizioni avviene in questa fase) e non hanno un potere effettivo né sulla registrazione dei reati, né sulle inchieste che ne derivano: possono respingere un’archiviazione, per esempio, ma non imporre al pm la chiusura di un’indagine sballata.
I faldoni girati ai giornali
Quanto all’equilibrio tra accusa e difesa, be’, resta un’utopia. Basti pensare che il 73 per cento dei penalisti si dice convinto che le procure intercettino e trascrivano perfino le telefonate tra indagato e difensore, rigidamente proibite per legge. Non parliamo poi degli effetti mediatici del nostro “processo all’americana”: alla fine delle indagini preliminari il pm, dotato di ultrapoteri e incontrollato, passa ai giornali faldoni carichi di intercettazioni e interrogatori, e di prove a senso unico che ogni volta vengono assunte quali verità assolute. Il processo “vero”, quello che fa più male all’imputato anche quando è innocente, di solito finisce a quel punto. Alla faccia della parità con il povero avvocato, disarmato e silenziato. E Perry Mason? È ancora lì che osserva e se la ride.
Ma anche i riti alternativi (patteggiamento, rito abbreviato, processo immediato e direttissimo) non sono mai decollati e purtroppo servono a molto poco. Si calcola che chiudano meno del 10 per cento dei 2 milioni di procedimenti aperti ogni anno. Oggi il governo Renzi pensa di reintrodurre il patteggiamento anche in appello, dimenticando che quel sistema dette vita a clamorose incongruenze nell’equità della pena (nel caso di Ruggero Jucker, l’omicida milanese, nel 2005 servì a dimezzargli la condanna da 30 a 16 anni di reclusione). L’idea, per ora ventilata, dimostra una volta di più che il legislatore non agisce in base a criteri logici né basandosi sulla sperimentazione, ma da troppo tempo improvvisa.
Per questo in campo penale si continuano a produrre false riforme, da infilare sulle lance dell’opinione pubblica: pene più severe, prescrizione allungata, nuovi reati. Ogni volta è un inutile bla-bla. In realtà, un governo o un Parlamento che volessero governare davvero e con coraggio la giustizia penale dovrebbero prendere il “nuovo” codice di procedura del 1989 e… fare un ’48. Ma con questi ritmi, con questi governi, e con questi Parlamenti, ci vorrà ancora un secolo.
Maurizio Tortorella (Tempi)
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