Parigi: la vita è dolce grazie al design italiano

Cultura e spettacolo

Milano 25 Luglio – «Dolce vita è una formula felice, ma inflazionata, ambigua quanto basta nel suo venire usata per definire uno stile, un modello comportamentale, un carattere e una psicologia. Con l’aggiunta di un punto interrogativo ( Dolce vita? Du Liberty au design italien 1900-1940 , fino al 13 settembre) il Musée d’Orsay la utilizza per questa esposizione che allinea più di 180 «pezzi» fra quadri, vasi, mobili e oggetti d’uso quotidiano. Come spiega Beatrice Avanzi, «conservateur» del Museo e co-curatrice della mostra (con Irene de Guttry) «per l’Italia si tratta di un periodo complesso, dal punto di vista politico, economico, sociale, e però culturalmente ricchissimo, quasi gioioso». È allora che come nazione entriamo a pieno titolo nella modernità e trasformiamo una ricca eredità di artigianato e tradizione in qualcosa di nuovo eppure italiano. L’artigiano diventa designer, l’artista entra da protagonista nel dibattito ideologico, l’architettura è chiamata a disegnare un ordine nuovo, movimenti culturali e movimenti politici si intrecciano e si influenzano.

Dolce vita? racconta il passaggio dall’Art Nouveau, con il suo trionfo della natura, alla ricostruzione futurista dell’universo, al successivo «ritorno all’ordine» post bellico che finirà poi per trovare una sua quadratura del cerchio razionalista e astratta: la Casa del Fascio, di Terragni, a Como. Spesso gli stessi nomi si rincorrono nel cambiamento e insieme lo giustificano. Il «futurista» Sironi sarà anche il Sironi «novecentista» che con Funi, Oppi, Marusig insegue un’idea figurativa in grado di riscattare l’antico e non esaurirsi negli «ismi» del moderno. Il «dadaista» Evola lascerà il posto al teorico della Tradizione, il Profilo continuo. Dux di Renato Bertelli, maiolica a vernice nera, campeggerà nella prima esposizione d’arte astratta a fianco delle opere di Fontana e Melotti, Casorati e Licini.

Nella mostra, la parte del leone la fa però il design, ovvero l’applicazione industriale della creazione artistica secondo l’indicazione di Gio Ponti, direttore fra le due guerre della Richard Ginori, fondatore della rivista Domus , teorico dell’industria «come stile del XX secolo». È un vero e proprio parterre du roi quello che scorre sotto gli occhi del visitatore: il simbolismo tormentato di Adolfo Wildt, le sculture e le ebanisterie di Duilio Cambelotti e di Carlo Bugatti, le ceramiche di Galileo Chini, il ferro lavorato di Mazzucotelli, i vetri di Vittorio Zecchin per Venini, le «provocazioni» di Franco Albini. Di questo ultimo, tra l’altro, sono esposte la radio in vetro e cristallo del 1938; la poltrona-seggiovia retta da un lungo gancio in ferro da appendere al soffitto, realizzata nel 1940; un grande mobile in ebano progettato per la casa dell’asso dell’aviazione Ferrarin, intarsiato con cornici di ottone. Fu a causa di quel mobile che Albini lasciò lo studio di Ponti per stringere sempre più rapporti con Edoardo Persico. Da qui la riconversione al razionalismo.

Albini, il già citato Ponti, Pizzigoni, Portaluppi, Mollino, Libera, Figini impongono la figura dell’architetto-designer e creano le basi per una primazia del made in Italy che da allora non sarà più smentita.

Luciana Baldrighi (Il Giornale)

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