Milano 13 Agosto – Sall parla con Pape che del «business» è nuovo: «Ci sono delle persone che vogliono andare, anche già domani, giovedì», quattro giovani eritrei senza documenti che l’hanno contattato per raggiungere la Germania. «Ma tu che strada fai di solito?», chiede il ragazzo. «Passo per l’Austria – gli spiega Sall, che di viaggi ne ha organizzati parecchi -. Da Peschiera vado verso il tunnel del Brennero». Il passeur appena assoldato è perplesso: «Devo cercare un navigatore, la Fiat che ho adesso non ce l’ha…». È così che funziona, un po’ per caso, in parte tentando la sorte, spesso affidandosi ad amici di amici. Nella conversazione intercettata sono due senegalesi a parlare. S’aggiungono tre egiziani e un tunisino. Gli altri venti sono eritrei, regolarmente residenti in Italia. Arrestati all’inizio dell’anno nell’Operazione Sahel, lavoro meticoloso e illuminante della Squadra Mobile guidata da Alessandro Giuliano, coordinato alla procura di Monza. A rileggere le carte (17 viaggi di trafficanti ricostruiti telefonata per telefonata, passaggio per passaggio) emerge chiaramente il meccanismo del transito clandestino di donne e uomini attraverso l’Italia, che ha uno snodo fondamentale a Milano. E che è ancora perfettamente funzionante. «Ne abbiamo presi 25 – osserva Giuliano -, ma non basta certo a fermare un fenomeno di queste proporzioni».
Manca un boss, non c’è una struttura di vertice. «Si tratta piuttosto di una rete orizzontale di gruppi che dialogano tra di loro», spiega il dirigente. Si vede bene nella collaborazione tra Yonas, che ha un appartamento in affitto in zona Molise-Calvairate, e Beshir, domiciliato presso il Cara di Mineo, Catania. In più occasioni concordano l’arrivo di profughi dalla Sicilia. In un caso specifico parlano di una ragazza che ha solo 100 euro, ma che il trafficante di Mineo vuol far partire. «L’ho mantenuta io per tre mesi, ma non voglio rischiare, è minorenne». L’accordo con Yonas è di metterla a bordo di un treno per la Svizzera. Sarà fermata dalla polizia subito dopo Ponte Chiasso, in tasca un foglio manoscritto con i due numeri di cellulare: Beshir e Yonas. Un nucleo di «esperti», una massa di «collaboratori occasionali», disposti a rischiare. «Se uno ha il lavoro non deve fare mai questo lavoro qua – ragiona Yonas al telefono con tale Temesgen -. Non bisogna sporcarsi. Io lo sto facendo perché la mia ditta è fallita. Poi siccome ho tanti amici italiani con loro ho iniziato. Quando M. faceva pagare 700 io facevo pagare 400, 250 li davo agli italiani e 150 era il mio guadagno». Non è un affare solo per eritrei. Italiani sono anche alcuni degli autisti che si prestano a fare da passeur.
«Non c’è una regola – spiega ancora Giuliano -, sono gruppi criminali con forte flessibilità capaci di adattarsi alle circostanze». Kelati affida un trasporto a Goge: sei persone dirette in Germania, 450 euro a testa, appuntamento in un bar di Porta Venezia. Poi gli chiede di portarne altre tre, non c’è posto, insiste, concludono la trattativa aggiungendo due passeggeri. Quindi s’informa dell’esito: «Ti hanno fatto passare?». «Sì tutto bene». È stato affiancato fino al confine da un complice, «solo che io uso l’autostrada, lui invece mi ha fatto passare di campagna in campagna».
Cambiano continuamente i conducenti, le strade, i passeggeri, le tariffe e pure i metodi di pagamento. A volte contanti, di frequente trasferimenti attraverso Western Union e Money Gram; sempre più spesso ricariche di carte PostePay per le quali le commissioni risultano più convenienti. Oppure c’è «il sistema della firma»: una sorta di accordo tra parenti in Eritrea. Infine, ed è una delle prime inchieste a documentarlo con precisione, il meccanismo antico dell’hawala: un passaggio di denaro tra «dealer» che non lascia traccia. E s’adatta perfettamente a questa rete fluida difficile da afferrare. Alessandra Coppola e Andrea Galli (Corriere)
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