Che bello un Ferragosto contro i luoghi comuni (sti)

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Milano 17 Agosto – Sì, forse con la cultura non si mangia, o si mangia poco, ma che gli addetti o gli operatori culturali in Italia manchino non mi sento proprio di dirlo. Né che manchi un interesse più o meno diffuso nella società o un ceto intellettuale attivo e ben visibile. Tutto, però sta a capire a che prezzo questo avviene, per la cultura in primo luogo. Può definirsi ancora tale, mi chiedo, quella melassa che ci viene propinata da centrali operative bene organizzate e non irrilevanti? Tanto bene organizzate da accreditare e fare la fortuna di personaggi che si spacciano per intellettuali ma la cui insipienza è pari solo alla loro arroganza. Ma personaggi funzionali sicuramente al sistema che li sceglie, li adotta, li crea. E che ha come solo scopo quello di autoconservarsi, quasi sempre all’ombra di un potere politico o di una certa idea che è per lo più di sinistra e “politicamente corretta”.

Ma il sistema non ha in verità nemmeno necessità di forzare l’adesione alle sue idee preconfezionate, ai suoi conformismi vestiti da anticonformismo, alle sue rassicuranti banalità: chi vuole conquistarsi un “posto al sole”, che è poi sempre più un posticino, sa, persino inconsciamente, che non deve lasciarsi trasportare dalla forza degli argomenti o dallo spirito critico, dalla profondità del ragionare e dalla finezza intellettuale, perché non saranno queste le qualità per cui verrà giudicato. Egli deve semplicemente accondiscendere il pensiero unico, che è tanto escludente verso chi manifesta autonomia e spirito critico, tanto includente verso chi sa, come ad esempio gli ultimivincitori dei Premi Strega o simili, dire le cose giuste al momento giusto e nel posto giusto. L’intellettuale diffuso raramente è uno spirito coraggioso e non ha bisogno che lo si censuri: si autocensura. Al sistema aderiscono poi pedissequamente la più parte delle pagine culturali e delle case editrici, le quali confezionano prodotti fatti per accontentare il pubblico che hanno loro stesso creato e che da loro vuole rassicurazioni e pannicelli caldi: cioè tutto quello che la cultura per principio non dovrebbe dare, essendo il suo compito quello di spiazzare e anche inquietare. La capacità di selezionare, di uscire fuori dal seminato, di dare luce a modi di pensare diversi, è dal tutto aliena in questo universo: prendete le pagine culturali dei giornali, o gli inserti culturali della domenica, e vedrete come siano tutte uguali: come diventate vere e proprie fiere dell’ovvietà, del risaputo, del banale. Ove lo scopo principale delle “firme” affermate e di quelle che vogliono emergere è di fare discorsi edificanti, di instillare “indignazione” a senso unico, di criticare il nostro tempo “povero di spirito” e commerciale, di esaltare “l’utilità dell’inutile”, di dare lezioni non richieste e non credibili di moralità, di profferire l’immancabile frecciatina antiliberista e antimercato (che è quasi un elemento identificante della “casta” a cui si ritiene o si vuole appartenere). Articoli insinceri non molto lontani dal “modello Donna Letizia”, ma senza la spontaneità e la semplicità del modello originale. A predominare è anzi una sorta di autocompiacimento che si traduce in autoreferenzialità. Predomina una specie di metadiscorso, retorico e spesso parodistico, sull’essenza della cultura, del leggere, del consumare libri.

In una parola: non si fa cultura né tantomeno la si divulga (che sarebbe pure una attività) ma si parla tanto di essa. Prendete i tweet de “La Lettura” o del “Domenicale” del “Sole” e troverete l’essenza di questa filosofia: “citazioni d’autore” che, decontestualizzate, hanno un po’ il sapore delle frasi che si trovano nelle confezioni dei “Baci Perugina”; oppure tutta una retorica sulla bellezza e l’eticità del leggere, così, a prescindere. Una sorta di feticismo del prodotto e una retorica dell’attività che si sostituisce alla sostanza e concretezza delle cose. Il sistema poi si allarga nelle librerie (le Feltrinelli, ad esempio, che sono diventate veri e propri megastore del luogo comune); o nei festival che proliferano nella provincia italiana e che tendono sempre più ad essere l’uno il clone dell’altro, con la solita “compagnia di giro” e con le solite ovvietà preconfezionate.

Come uscirne? La ricetta liberale, anche in questo caso, forse ci può aiutare. Se lo Stato di colpo troncasse ogni finanziamento culturale, ogni contributo a fogli e foglietti, a film e filmetti, se lasciasse del tutto all’iniziativa privata il settore (cominciando a vendere ad esempio la RAI TV), sicuramente si instillerebbe una sana concorrenza fra prodotti diversi. Un sano pluralismo che selezionerebbe quasi automaticamente i prodotti, separandoli per fasce di qualità. Gli stessi intellettuali, a quel punto, dovrebbero trovarsi un mestiere consono alle loro effettive capacità. Un’utopia la mia, probabilmente. Soprattutto in questa Italia. Ma sarebbe almeno il caso di provarci. Quel quid che chiamiamo cultura, quella vera, è sempre stata, anche nei regimi più dispotici, un’affermazione di libertà. Se la si vuole far proliferare, sarebbe opportuno lasciarla fare o non fare in libertà. Sarebbe meglio, al limite, disinteressarsene.

Corrado Ocone (L’Intraprendente)

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