Milano 18 Agosto – La Milano anni 50 e 70 nei ricordi del designer oggi novantenne, voce degli anni ruggenti di Milano e quattro volte vincitore del Compasso d’Oro
Bruno Munari, suo amico e compagno di lavoro, diceva che l’unica cosa che resta, nella vita di un uomo, è quello che lui ha fatto per gli altri. Il concetto è chiaro, condivisibile e non ha bisogno di commenti. Tuttavia si resta impressionati (e affascinati) dalla mole di lavori e invenzioni realizzata da Giancarlo Iliprandi nel corso della sua esistenza. Segni, disegni, progetti, idee che il grafico, designer, pittore, progettista, professore… – vincitore di quattro premi Compasso d’Oro – ha lasciato nella storia della comunicazione e del linguaggio. E che, riprendendo le parole di Munari, oltre a restare nell’universo dell’immagine, hanno arricchito la nostra vita. Marchiando in maniera indelebile la stagione più creativa di Milano, quella che va dagli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta: la Milano dell’Accademia di Brera e dell’Umanitaria, della Rai e della Fiera Campionaria. Quando anche un tavolino del Bar Jamaica era un posto dove lavorare. «C’erano troppe cose da fare, non si poteva stare fermi», ricorda oggi Iliprandi.
«Chiamare presentazione il suo testo era ed è riduttivo. È una divagazione – intensa, sentita – sulla città attraverso i fatti di cronaca di cui era teatro quotidianamente e che forse Dino scrisse al Corriere attingendo alle notizie che arrivavano dalla telescrivente». È il ritratto di una Milano che stava scomparendo e oggi non c’è più, una dichiarazione d’amore di chi ne apprezza anche i difetti e le contraddizioni. «Guardatela se ne avete il coraggio», scrive nelle prime righe, «dall’alto da vicino o lontano / ma no non potete vederla / la copre il sudario delle caligini». «Ho conosciuto Dino Buzzati a Cervinia, attraverso gli amici comuni Giuseppe Pirovano, detto “il Piro”, maestro di sci, guida alpina e scalatore, e la moglie Giuliana Boerchio, detta “Zanzarina” per il suo carattere di donna inarrestabile e pungente. Nel rifugio disegnato da Franco Albini Buzzati aveva la “sua” stanza. E io ero uno dei pochi ad avere il privilegio di potervi dormire quando lui non c’era. Che tipo era? Non parlava molto, era riflessivo e silenzioso. E laconico: andava in montagna per distrarsi dai suoi pensieri e dal giornale. Aveva spesso le ciglia aggrottate come fosse seccato per qualcosa. Ed era molto corteggiato. Tra le donne che lo volevano sedurre – tra cui Camilla Cederna che però lui non ricambiava – ce n’era una di cui non ricordo il nome, insistente e appiccicosa. Era sicura di averlo convinto a sposarla o almeno a stare con lei. Ma non sembrava che i suoi sentimenti fossero corrisposti. Lei diceva che c’erano stati degli assaggi ai quali, insinuavamo noi, Buzzati doveva aver c eduto per disperazione».
Prima di lavorare insieme, Iliprandi e Buzzati si incontravano anche all’Aretusa. «Ci andavo a sentire il jazz di New Orleans con Max Huber e Roberto Leydi. E ricordo che Dino arrivava da solo, con aria misteriosa, e faceva quello che facevano tutti gli uomini soli con l’aria misteriosa: si sedeva a un tavolo, beveva qualcosa e si occupava delle sbarbine, com’erano chiamate le ragazze, per contrapporle ai ragazzi detti sbarbati. Le sbarbine erano giovani che facevano la mezza vita. Non battevano, non avevano protettore. Erano ragazze libere che intrattenevano i clienti. Buzzati era interessato a una di loro. Una fanciulla con i capelli scuri, che se non sbaglio faceva la ballerina. Con lei aveva senz’altro una storia visto che spesso se ne andavano via insieme. Era molto preso da lei. Direi ossessionato. Di certo non gradiva che in sua assenza si accompagnasse con altri uomini. Era prima dell’uscita del romanzo “Un amore” per cui penso che fosse proprio lei ad avergli ispirato la figura di Laide. Il loro era davvero “un amore”».
Dopo il libro su Milano ancora qualche incontro. «Non ricordo l’ultima volta che lo vidi. Ma rimpiango di non averlo frequentato abbastanza, di non aver colto l’occasione della nostra amicizia per parlare di più con lui, per fargli domande. Ma così è la vita. Al momento non ci pensi e poi, quando te ne rendi conto, è troppo tardi e non puoi più tornare indietro».
Lorenzo Viganò (Corriere)
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