Milano 20 Agosto – C’era una volta mia madre, una brava sarta, con il sorriso sempre stampato negli occhi, i gesti gentili, il calore nelle carezze. Ed io sentivo crescere le mie mani nelle sue, quando popolava la sera di principesse buone e di orchi malvagi, di fiori parlanti e di coccinelle dispettose, di fate d’argento e di violini invisibili. Aveva una capacità speciale di inventare mondi e personaggi speciali, nella nostra favola esclusiva che ogni giorno si ripeteva, che colorava il tempo. E cavalcare la fantasia per tanto tempo è stato il mio rifugio, il mio abbandono. E pensare che il bene debba vincere sempre sul male è stata la mia convinzione, quasi una regola di vita.
Quando si ammalò avevo otto anni. Ricordo nitidamente le sensazioni, le paure, per quei discorsi a mezza voce, le lacrime asciugate furtivamente, i primi freddi dell’autunno. E c’era poco tempo per raccontare e la dolcezza si cristallizzava con la malinconia. “Ti regalerò la più bella bambola al mondo e avrà l’oro nei capelli, l’argento delle fate nell’abito e il sorriso della gioia”, mi promise. Così nacque la Pigotta della mia vita e dei miei ricordi. Alta quasi quanto me, gli occhi blu perennemente stupiti, i capelli intrecciati di sole, un mazzetto di fiori nella mano, quasi un’offerta di tenerezza. “Sarà un’amica, una compagna d’avventura, il ricordo di tua madre” E c’era la volontà di prepararmi al distacco, il desiderio che, poi, la memoria avesse la magia del nostro mondo incantato.
Morì in una notte di vento ed era inverno e il freddo gelava il cuore.
La mia Pigotta ha il cuore nascosto dagli stracci e dalla fatica, ma mi accompagna ormai da sessant’anni e mi scalda d’amore, la sera, quando posso ancora sognare la fata buona che era mia madre.
Soggettista e sceneggiatrice di fumetti, editore negli anni settanta, autore di libri, racconti e fiabe, fondatore di Associazione onlus per anziani, da dieci anni caporedattore di Milano Post. Interessi: politica, cultura, Arte, Vecchia Milano