Milano 26 Agosto – «Il nome della nostra Chiesa è chiesa dei martiri, chiesa del sangue. Prima del 2003 in Iraq c’erano oltre 2 milioni di cristiani, oggi siamo poco più di 200 mila». Non risparmia niente al pubblico del Meeting padre Douglas Al-Bazi, parroco di Erbil (Kurdistan iracheno), della drammatica realtà dei cristiani perseguitati nel Medio Oriente.
Il sacerdote che un anno fa si è visto arrivare nella sua parrocchia oltre 120 mila cristiani, in fuga da quelle città conquistate dallo Stato islamico, non usa mezzi termini raccontando il suo calvario e quello della sua gente: «Io non sono qui per spingervi all’odio verso l’islam, sono qui per rappresentare la mia gente e vi dico che se c’è qualcuno che pensa ancora che l’Isis non rappresenti l’islam, ha torto: rappresenta l’islam al 100 per cento. Io sono nato tra i musulmani, ho più amici musulmani che cristiani, ma non posso non dire, come papa Francesco, che qui è in atto un genocidio, non appena un conflitto».
RAPIMENTO E TORTURE. Il parroco di Erbil ha poi raccontato la sua storia, che i lettori di Tempi ben conoscono: la sua chiesa bombardata dai terroristi, il rapimento per mano di estremisti, le torture durate nove giorni mentre i suoi aguzzini ascoltavano in televisione le letture del Corano. «I cristiani in Medio Oriente subiscono tutto questo. Quando mi hanno incatenato [in prigionia], la mia catena aveva 10 anelli e un grosso lucchetto: io la usavo come un rosario, dicendo un’Ave Maria per ogni anello e il Padre nostro per il lucchetto».
«PARLATE E SVEGLIATEVI». Io, ha aggiunto padre Douglas, «non sono spaventato, non sono un eroe e non mi lamento per quello che mi è accaduto. Noi portiamo la croce e seguiamo la croce di Gesù. So che l’ultima parola sarà la nostra perché Gesù ci ha salvati. Io sono qui per dire a voi: siate la nostra voce, parlate e svegliatevi. Il cancro è alle vostre porte ormai, vi distruggeranno. I cristiani in Medio Oriente, in Iraq, sono l’unico gruppo ad aver visto il volto del male: l’islam. Pregate per la mia gente, aiutate la mia gente, salvate la mia gente. Perché lasciate le pecore libere in mezzo ai lupi? Io sono un sacerdote, presto probabilmente mi uccideranno e ci distruggeranno. Ma noi apparteniamo a Gesù, Gesù è la nostra terra promessa. Voi però agite, grazie».
«QUI SEMBRA L’APOCALISSE». Dopo la fortissima testimonianza di padre Douglas, è intervenuto Ibrahim al-Sabbagh, parroco della martoriata Aleppo, divisa in due e assediata dai jihadisti (qui il reportage di Tempi). Alla platea del Meeting ha raccontato la situazione di estrema difficoltà in cui vivono i cristiani: «Viviamo nel caos, subiamo bombardamenti ogni giorno, che seminano la paura e il terrore, senza risparmiare chiese, moschee, anziani e bambini. È quasi impossibile mangiare carne o bere latte, la gente non ce la fa più e ora mancano anche acqua e medicine perché i jihadisti, che controllano le pompe, non ce la fanno arrivare. Sembra che qui si stia realizzando l’Apocalisse, che medito ogni giorno».
CRISTIANI E MUSULMANI. Padre Ibrahim, francescano, vive nel convento di San Francesco d’Assisi «a 50 metri dalla zona controllata dai jihadisti». Vede ogni giorno «l’uomo privato della sua dignità umana» ma «quando una signora bussa alla mia porta per chiedere dell’acqua, io non guardo se ha il velo o no, se è cristiana o musulmana. Per me conta solo che è assetata. La sofferenza di Gesù Cristo si vede nell’umanità di Aleppo, sia nei cristiani che nei musulmani».
«VOCAZIONE CRISTIANA». Con la parrocchia, padre Ibrahim ha organizzato un servizio per portare l’acqua in casa a chi non ce l’ha. Riesce a trasportarla con autocisterne a 30-40 famiglie al giorno, «ma nella nostra lista sono iscritte 500 famiglie. Ogni tanto rido di me», continua, «perché io sono appassionato dei libri, amante dello studio, e mi trovo a fare il vigile del fuoco, l’infermiere, il badante e solo poi il sacerdote. Ma questo è bello perché il mio abito è stato fatto per essere sporcato a servizio degli altri, questa è la nostra vocazione cristiana».
«VOI SIETE DIVERSI». Anche la testimonianza di padre Ibrahim è estrema: «Ciò che conta per noi cristiani è testimoniare Gesù Cristo, amando e perdonando tutti. I terroristi qui distruggono tutto, ma noi offriamo la nostra sofferenza per la loro salvezza, preghiamo per loro, li perdoniamo». Una posizione di cui tutti si accorgono: «Pochi giorni fa è arrivato un musulmano al pozzo della parrocchia dove distribuiamo l’acqua. Ci sono lunghe file, ma di gente composta, che sorride. Ma lui ha girato tutta Aleppo, ha visto che da altre parti ci si ammazza per attingere l’acqua. Sottovoce, mi ha sussurrato all’orecchio: “Padre, io mi meraviglio. Voi siete diversi, siete pieni di pace e di gioia. Siete diversi”».
«VIVERE IN MODO RADICALE». Ecco, conclude padre Ibrahim, «basta il sale di pochi cristiani per dare sapore al calderone che è Aleppo. Tanti vogliono andarsene ed è comprensibile. Ma Dio ci ha piantati qui e non abbiamo diritto di sradicare questa pianta. La nostra presenza è una missione e quindi rimaniamo qui, non ci arrendiamo ma amiamo di più, perdoniamo di più, continuiamo questa via crucis, che non è una passeggiata. Noi abbiamo una ragione per vivere e morire: Gesù. Dobbiamo essere radicali nel vivere la fede. Grazie a questo noi abbiamo fatto una scoperta: siamo sempre più pieni di gratitudine per quello che Dio ci dà».
Leone Grotti (Tempi)
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