Milano 11 Settembre – Proponiamo il cuore del mondo femminile lombardo descritto da Carlo Emilio Gadda, nell’analisi critica di Pietro Citati pubblicata dal Corriere in data 4 luglio 2012. Per un omaggio al grande scrittore, alle donne e al dialetto popolare
“Tra il 1932 e il 1936, Carlo Emilio Gadda abbozzò e scrisse un romanzo, Un fulmine sul 220, che avrebbe dovuto raccontare gli amori tra una borghese di Milano, Elsa Cavenaghi, e un popolano, prima garzone di macellaio poi pulitore di parquet. L’amore finiva tragicamente, perché un fulmine colpiva una cabina elettrica, dove i due amanti si erano rifugiati. Gadda si stancò del romanzo, come gli accadeva sempre. Frantumò crudelmente Un fulmine sul 220: ne estrasse cinque frammenti narrativi; aggiunse altri cinque frammenti, in parte ricavati dalla Cognizione del dolore; li ampliò, li variò, raffinò e rese complesso lo stile, annotò copiosamente i testi. Così nacque quella suite sinfonica milanese, pubblicata nel 1943-44, sotto il titolo L’Adalgisa. In questi giorni essa riappare nella nuova edizione pubblicata da Adelphi: la curatela, come sempre eccellente, è di Claudio Vela.
Dopo I promessi sposi, non esiste, nella letteratura italiana, nessuna rappresentazione d’una città così ricca, complessa, variegata, sonora come nella bellissima L’Adalgisa. Come in Manzoni, la città è Milano: la storia, la società, la psicologia, la cultura, i costumi, i riti, la lingua, l’esistenza quotidiana di Milano, di cui Gadda vuole rappresentare la totalità enciclopedica. Niente deve sfuggire al suo sguardo onnicomprensivo di storico-psicologo-entomologo-mineralogista: nemmeno il minimo frammento o la minima possibilità. Gadda non riuscirà mai più in un’impresa così straordinaria: sebbene sia un libro superiore all’Adalgisa, il Pasticciaccio non è una rappresentazione totale della società, della cultura e dei costumi di Roma.
Nell’Adalgisa, Gadda cita i versi famosi di Le cygne di Baudelaire: «La forme d’une ville change plus vite, hélas! Que le coeur d’un mortel»; «La forma di una città cambia più presto, ahimé!, che il cuore di un mortale».
Gadda non voleva rievocare, come Baudelaire, la vecchia Parigi, non ancora squarciata dai boulevard del barone Haussmann. La sua Milano era quella moderna: tra la fine dell’Ottocento e il 1940; la Milano degli anni in cui scriveva febbrilmente romanzi destinati a rimanere incompiuti. Malgrado lo sguardo satirico, aveva per quella città un affetto senza limiti. Amava il suo senso di gruppo, l’affettuosità sincera e recitata, «la festevolezza e allegria squillanti», la bonomia un po’ sciocca, il moralismo spesso grottesco, la velocità in tutte le occasioni della vita, l’intraprendenza, il buon senso a volte assurdo, un vago alone di demenza e, sopratutto, una vocalità femminile che nessun freno poteva arrestare. Più tardi visse a Firenze e a Roma: le amò entrambe; dedicò loro dei libri, che incarnano momenti successivi della sua letteratura; ma soltanto Milano, sino alla fine della vita, rimase la città privilegiata.
Milano era, per lui, in primo luogo, suono. Mai nessun dialetto suscitò in Gadda la passione, la confidenza, la gioia fonica del milanese: nemmeno le molteplici lingue che si intrecciano nel Pasticciaccio. Quello era il suo vero strumento musicale. Spesso il significato delle parole non aveva peso. Qualsiasi cosa dicessero il nobile Gian Maria Cavenaghi e la moglie Elsa e Adalgisa Borella vedova Biandronni, o uno qualunque dei molti milanesi che, preso il tram 24, andavano ad ascoltare il «Concerto dei 120 professori», Gadda amava la pura esplosione sonora delle voci: l’assolo, il vocalizzo, il duetto, il trillo, il tutto accompagnato da violini, trombe e contrabbassi.
L’Adalgisa era un libro di enumerazioni. In primo luogo, enumerazioni di cognomi, che formano stupende orchestrazioni e gomitoli musicali: «Cognati dei Perego, cugini dei Maldifassi, nipoti dei Lattuada e pronipoti dei Corbetta, legati in seconde nozze coi Rusconi, in seconda cognazione coi Ghiringhelli, e in terza con un’altra casata, di cui mi sfugge il patronimico…». Enumerazione di tutti i mobili e gli oggetti contenuti in una casa, che vengono continuamente trasportati in altre case da ditte di traslochi: seggiole, cuscini, tavolini, letti; la chincaglieria del salotto o il bazar del salone e la pelle d’orso bianco con il muso disteso e gli unghioni rotondi, e i comò e i canapè e il cavallo a dondolo del Luciano e il busto in gesso del bisnonno Cavenaghi eternamente periclitante sul suo colonnino a torciglione: e bomboniere, orologi a pendolo, vasi di ciliege sotto spirito, orinali pieni di castagne secche o di gusci di ostriche del viaggio di nozze, il tombolo della nonna Bertagnoli, rotoli di tappeti e batterie di pantofole snidate da sotto i letti, e «tutti insomma gli ingredienti e di aggeggi della prudenza e della demenza domestiche…». Bisognava enumerare, enumerare senza fine. Non c’era altro modo per rendere la totalità del mondo: perché il mondo era uno sterminato vocabolario, di cui soltanto Gadda conosceva gli innumerevoli lemmi.
Le prose dell’Adalgisa non sono racconti, come L’incendio di via Keplero o San Giorgio in casa Brocchi, che poi confluirono nelle Novelle dal ducato in fiamme; e nemmeno disegni, come pretendono di essere. Discendono da un romanzo incompiuto, e quindi sono grandi frammenti narrativi, legati l’uno all’altro, intrecciati l’uno all’altro, con gli stessi personaggi ed eventi paralleli. Componendo L’Adalgisa, Gadda vi appose una moltitudine di grandi e piccole note. Alcune di queste note hanno il compito di allargare all’infinito i rapporti narrativi e lirici del racconto: altre, al contrario, non hanno nessun rapporto col testo. Gadda scrisse alcune mirabili pagine su Napoleone e Joséphine de Beauharnais o il duomo di Milano o le fognature di Milano o i diamanti del Sud Africa. Le mise in nota alle sue prose proprio perché non avevano nessun rapporto con loro: col risultato di una specie di volontaria o involontaria demenza espressiva.
Nell’Adalgisa, gli uomini, coi lunghissimi nasi e i folti baffi e le collezioni di francobolli, farfalle e minerali e i conti da ragioniere e le forniture di gianduiotti, posseggono una funzione di secondo piano. Hanno passioni minuscole ed assurde: come quella di voler mangiare i ravanelli tutti interi, colle delicate radici e il ciuffo verde. A Milano, comandano le donne. Sono dovunque. Sciamano all’aperto come api d’estate. Riempiono le case e le cucine come formiche.
Gadda le deride. Ricorda i luoghi comuni dei loro discorsi: la ridicola ecolalia con la quale ripetono gli sciocchi enunciati dei maschi di casa; l’isteria, o per meglio dire, «quell’imprescindibile disagio, a non opinare orgasmo, che tanto soavemente inerisce alla delicata sensitività dell’animo femminile»; la paura-speranza di sentirsi strappare gli orecchini di diamante da parte «di una mano virilmente predatrice»; e poi quella condizione di completezza fisico-psichica per cui si sentono «sicure del fatto loro» ed emanano attorno il fuoco tambureggiante dei loro apoftegmi. Ma Gadda sa benissimo che le donne sono le vere custodi ed interpreti delle istituzioni, dei sentimenti e delle idee della tribù. Sono le filosofe, moraliste e sociologhe di Milano: le signore del linguaggio. Anche l’ultima delle portinaie è dotata di una o più verità clamorose, che viene o vengono ripetute all’infinito a tutti i milanesi o lombardi, ogni giorno, dalle sette di mattina a mezzanotte.
Il cuore del mondo femminile lombardo è Adalgisa Borella, vedova del ragionier Carlo Biandronni, il grande filatelico, mineralogista, entomologo, che sposa malgrado l’ostilità delle vecchie e presuntuose aristocratico-borghesi. «Aveva degli occhi limpidissimi, d’un azzurro infantile, con l’iride di un castano-nero, dorato, di oro nero», dove trascorrevano lampi di gioconda e spregiudicata malizia o di furbizia, che si posavano sopra il narratore e i suoi amici, quietandosi, e «quietandoci, come d’una gioia vivificatrice». Adalgisa incarna l’Eros lombardo: quell’Eros che Manzoni non aveva rappresentato: affettuosa, tenerissima, materna, decisa, possessiva, meravigliosamente prepotente. A volte, è tremenda. «Gli occhi erano di fuoco, d’un fuoco nero… Aveva spifferato tutta quella requisitoria con l’inaudita velocità di una mitragliatrice, con quella parlata vertiginosa e crepitante che non dà tempo alla replica, come la gragnola non dà modo al riparo; in un tono irruento e latrante (con la faccia e i bulbi in avanti), o, per un attimo, attenuato e cupo, ferocemente saccadé, quello che fa così stupende e terribili le Erinni di buona razza».
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