Milano 18 Settembre – Comunque vada, difficilmente sarà un successo. Ancora una volta, la volata rischia di giocarsi al fotofinish. Di nuovo, le sorti di un governo saranno affidate al pallottoliere. Era accaduto a Romano Prodi, sempre al Senato, il 24 gennaio 2008. Allora i voti a favore della fiducia furono 156, mentre 165 parlamentari dissero di no al governo. Quasi nessuno ricorda come andarono esattamente le cose. Certo, alle spalle c’era stata allora la dissociazione dei “comunisti” di diversa scuola, e quella fu la loro morte politica. Ma la frittata fu provocata dai centristi di Clemente Mastella, l’ultimo degli alleati accorsi alla corte di Renzi, e dai mal di pancia di Lamberto Dini. Sempre la “palude”, come ai tempi di Robespierre, preoccupata solo di salvare la pelle o, più prosaicamente, delusa per qualche poltrona persa.
Sette anni fa si trattò di un “incidente” che l’allora presidente dl Consiglio subì, e la posta in gioco, in fondo, era “solo” la sopravvivenza di un governo. Questa volta, invece, il redde rationem è stato deciso dal capo del governo. La scelta di tagliare il nodo gordiano della trattativa con la minoranza interna del Pd, e non solo, rappresenta l’ennesimo azzardo di Renzi ma è qualcosa di più di un’ordinaria sfida al partito di cui è segretario e di un’esibizione muscolare verso le opposizioni“ufficiali”. Far precipitare la situazione, spingendo Finocchiaro a pronunciarsi sull’inemendabilità del famigerato articolo due del disegno di legge costituzionale, anche a rischio di provocare uncorto circuito istituzionale con il presidente del Senato, e affrontare il parere negativo della Commissione Affari istituzionali, rappresenta, di fatto, anche al di là del contenuto della “riforma” del Senato, il banco di prova del tentativo di cambiare verso al regime parlamentare, di modificare “la Costituzione materiale” della Repubblica, esattamente nel significato che a questa espressione aveva dato Costantino Mortati, il grande studioso eletto al’Assemblea Costituente nelle file della Dc. Comporta una torsione gollista, non dichiarata e discussa apertamente, dell’equilibrio tra i poteri. Prima ancora che negli esiti del cambiamento, nelle modalità con cui Renzi tenta di realizzarlo. In contraddizione con programmi e dichiarazioni ripetute nei vari passaggi che hanno condotto alla nascita del Pd, una fondamentale riforma costituzionale rischia di essere approvata a stretta maggioranza, e con la probabile spaccatura dello stesso partito di maggioranza. Povero Mortati. Per lui, prima e al di sopra della costituzione formale, occorreva riconoscere la presenza di una “costituzione originaria” composta di due elementi: “uno scopo tanto comprensivo da apprezzare in modo unitario i vari interessi che si raccolgono intorno allo Stato”, e il partito politico quale strumento per realizzarlo. Spazzati via entrambi in un sol colpo con la nuova dottrina che, per il combinato disposto dell’ “Italicum”, della riforma del Senato e della marginalizzazione delle autonomie sociali dei “corpi intermedi”, mette a repentaglio la concezione liberale del balance of power. Nel silenzio sorprendente di molti che, a suo tempo, si stracciavano le vesti di fronte al“regime” immaginario di Silvio Berlusconi. Come nella vecchia favola, qualcuno ha perso la voce per avere gridato troppo spesso, e fuori luogo, “al lupo, al lupo”, finendo per rimanere afono nel momento in cui le pecore stanno per essere ghermite.
Nella forzatura di Renzi, c’è un’idea antica. Quella, propria del vecchio trasformismo, che le maggioranze si formano dall’alto, non attraverso il voto dei cittadini e le combinazioni politiche possibili, costruite sulla base di chiari intenti e di programmi definiti (leggi: come nella Germania attuale ad esempio), ma in virtù di un rapporto plebiscitario tra il leader e il popolo che lo autorizzerebbe a ridisegnare le mappe della politica in funzione dei suoi obbiettivi. Così se una Doris se ne va via dal “tavolo della riforma” (tale Doris Lo Moro, senatrice della minoranza del Pd), non c’è nessun problema. Anzi. È in arrivo un Denis, un Denis di ricambio, con le sue truppe. E magari qualche ascaro pescato qua e là, terrorizzato dall’eventualità di dover lasciare il laticlavio in anticipo. In ogni caso, se Renzi dovesse spuntarla, ci troveremmo con un’altra maggioranza. Forse con un’altra Repubblica.
Emilio Russo (L’Intraprendente)
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