Perché la compravendita di Renzi non fa indignare nessuno?

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Milano 19 Settembre – Titolo a caratteri cubitali: «Libero voto in libero mercato». Nel catenaccio: «Una maggioranza rabberciata con il voto di fiducia di alcuni deputati venduti non ha nulla a che vedere con i principi della buona politica». No, non è un editoriale di Libero o Il Giornale in vista della delicatissima partita che il governo Renzi si appresta a giocare al Senato sulla riforma costituzionale. Ma un commento pubblicato da l’Unità l’11 dicembre 2010. Flashback: siamo alla vigilia del voto di fiducia sul governo Berlusconi dopo lo strappo finiano. La sorte dell’esecutivo, alla Camera, si gioca su una manciata di deputati. Alla fine, il 14 dicembre, il governo si salva per tre voti. Decisivi saranno i «sì» di alcuni finiani «pentiti» (Polidori e Siliquini, oltre all’astensione di Moffa) e quelli dei «responsabili» Razzi e Scilipoti. Le cronache dell’epoca si scatenarono sulla «compravendita» di deputati, sul «mercato delle vacche», sulle promesse di sottosegretariati e commissioni in cambio dell’appoggio al governo (in effetti Catia Polidori, qualche mese dopo, sarebbe diventata sottosegretaria allo Sviluppo). Si paventò persino dell’esistenza di un listino di prezzi – da 350mila euro in su – per convincere gli indecisi al cambio di casacca.

Ecco: di tutto questo oggi non leggerete una riga. Perché gli anni sono passati, i protagonisti delle trattative non sono più gli stessi – a parte Denis Verdini, ieri procacciatore di voti per Berlusconi, oggi per Renzi – e perché l’Italia è un Paese che si indigna a corrente alternata. Le stesse promesse di sottosegretariati e presidenze di commissione – saranno queste, alla fine, a determinare l’esito della riforma della Costituzione – non scateneranno le proteste popolari dell’epoca. Né Famiglia Cristiana vergherà un editoriale per definire la compravendita dei deputati «peggio di Tangentopoli» come fece allora. Al rottamatore fiorentino sarà perdonato un «suk» parlamentare che, in epoca berlusconiana, attirò persino le attenzioni dei magistrati.

A presentare un esposto sui cambi di partito fu Antonio Di Pietro, ferito dall’addio di Domenico Scilipoti e Antonio Razzi. La procura di Roma aprì immediatamente un fascicolo, l’inchiesta finì sul binario morto. A Montecitorio i deputati dell’Idv agitavano banconote da 500 euro. Francesco Barbato accusò Berlusconi di essere un «compratore di democrazia». Per la cronaca, oggi l’Idv è risorto in Parlamento e vi hanno appena aderito gli ex grillini Romani e Bencini, pronti così a dare un aiutino al governo.

Scilipoti, si diceva. L’attenzione dei media nei suoi confronti fu spasmodica. Le troupe di Annozero piombarono persino in casa della madre, in Sicilia. La poverina svenne. La immaginate, oggi, una visita simile in casa di Vincenzo D’Anna?

L’indignazione correva sulle pagine dei giornaloni di sinistra: Massimo Giannini, su Repubblica , parlava di «scandalo in Parlamento». «Eppure – scriveva l’attuale conduttore di Ballarò – per i Cicchitto e i Verdini, per i Bondi e gli Alfano, non è questo lo scandalo. Questa è la “libera dialettica parlamentare”». Oggi tutti i personaggi citati votano con il governo del Pd.

Raffaele Cantone, capo dell’Anticorruzione in epoca renziana, sul Mattino denunciava «l’immoralità del mercato in Parlamento». Sempre su Repubblica il non ancora grillino Stefano Rodotà raccontava dei «compratori di voti» che si muovevano nel «silenzio della democrazia».

Non era da meno Marco Carra, allora iscritto al Pd, che su Liberal paragonava Berlusconi a Mangiafuoco: «Era partito come il fustigatore del “teatrino della politica” ma ha finito per diventarne il regista». Una descrizione che oggi potrebbe calzare a pennello a Matteo Renzi. E a Carra, forse, non dispiacerebbe, dato che quando abbandonò il Pd, nel febbraio 2011, l’allora sindaco di Firenze lo accusò dicendo che «chi cambia partito dovrebbe dimettersi dal Parlamento». Oggi, grazie agli odiati «trasfughi», il premier fiorentino continua a governare senza mai essere stato eletto.

Il 14 dicembre 2010, come detto, Berlusconi «sopravvisse» per tre voti. Antonio Padellaro, su Il Fatto , tuonò: «Ha vinto l’Italia peggiore». In un corsivo de l’Unità il Pdl venne accusato di passare dal «metodo Boffo» al «metodo Moffa». Il titolo in prima pagina del giornale fondato da Antonio Gramsci fu ancora più esplicito: «Governo Scilipoti». Oggi, se Renzi dovesse spuntarla sulla riforma del Senato, quale sarebbe il titolo giusto? Governo D’Anna? Governo Verdini? Governo Amoruso? Ai posteri – e ai titolisti de l’Unità – l’ardua sentenza.

Carlantonio Solimene (Il Tempo)

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