Milano 11 Ottobre – Il chirurgo americano e il grande avvocato. Erano entrati in scena cavalcando credenziali più miracolose di un tappeto magico.
Sono atterrati malamente, buttando giù come zavorra la loro presunta autorevolezza. Storie diverse e però da raccontare insieme: Orsoni sindaco di Venezia per quattro anni, dal 2010 al 2014, passava per uno dei più grandi esperti di diritto amministrativo d’Italia e a lui si rivolgevano pure i giudici. Gli stessi che l’anno scorso l’hanno ammanettato per la tangentopoli del Mose. Un finale amaro: la scoperta che pure lui, il maestro stimato, si era infilato in un miserevole gioco di finanziamenti illeciti per il suo partito più o meno di riferimento, il Pd. Lo stesso partito che aveva mal digerito l’ascesa di Marino, il marziano che vantava un curriculum internazionale, arrivava da Pittsburgh, dalla frontiera più avanzata del sapere, per mettere a disposizione il suo talento e risanare la capitale disastrata.
Si sa, Roma è un caso a sé, ma a modo suo anche Venezia si porta dietro ricordi gloriosi ma bordati di malinconia perché il declino della città avanza lento e inarrestabile. La laguna si spopola, qualcuno ritiene di coniugarla già al passato, la Serenissima rivive solo nei dipinti. E però Orsoni si era prestato all’immane compito di fermare la corrosione e il degrado, così come Marino si era insediato su quella poltrona, al centro di scandali senza fine.
Marino non era amato dal Pd, che l’aveva subìto; Orsoni era stato venduto come il fiore all’occhiello di un rinnovamento alto, degno erede di una testa pensante come Massimo Cacciari. È il falso mito della società civile che ancora una volta ha fatto vittime sul campo.
Orsoni, a differenza di Marino, ha governato per quattro anni, poi il suo capitale si è dileguato nella follia di pochi giorni. L’arresto, il trasloco ai domiciliari nella sontuosa abitazione affacciata sul Canal Grande, giusto di fronte al municipio. Quindi, dopo aver concordato la resa con la procura, il ritorno a Ca’ Farsetti e il tentativo, donchisciottesco, di resistere a oltranza rivolgendosi direttamente ai cittadini. Una sorta di rivolta stroncata in 24 ore da Matteo Renzi. E ancora il contrappasso del balbettio al momento di spiegare quei flussi di denaro, una sorta di straniamento da Alice nel paese delle meraviglie che non rende onore alla statura del personaggio. Ora chiamato a un procedimento scivoloso, dopo il no del giudice al patteggiamento.
Marino se ne va invece dopo un’agonia lunga come il suo mandato. Anche lui aveva portato in dote il kit corazzato del professionista affermato, lontano dalla logica del palazzo, dai suoi apparati, dai riti inaccettabili della casta. Ecco la bicicletta e tutta la retorica nuovista da cartiglio dei Baci Perugina. Purtroppo la sequenza successiva ha smentito le più funeree previsioni: la caduta dalla bici, presagio di sventura, il Panda-gate e, dopo le interminabili vacanze americane, la farsa degli scontrini.
Marino, che si era issato sulla disgrazia di Mafia capitale, è stato disarcionato per pochi euro, un vitello tonnato, una bottiglia di Gattinara, lo sguardo ai raggi X di un oste romano che ha inchiodato il primo cittadino: il sindaco e la moglie degustavano uno strepitoso Vintage Tunina Jermann a spese del contribuente. Sipario. E cosi si dimentica pure tutto il positivo che Marino e Orsoni avevano cominciato, o tentato di fare. E, quasi quasi, si rimpiange la casta.
Stefano Zurlo (Il Giornale)
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