Milano 19 Ottobre – Anche Renzi si è dovuto inchinare alla quasi impossibilità di tagliare spese nel bilancio pubblico. Dagli iniziali 10-12 miliardi stimati nella preparazione della legge di Stabilità il premier ha dovuto ammettere di essere sceso ed essersi accontentato di 5 miliardi. La metà del bottino ipotizzato dal commissario Roberto Perotti, bocconiano doc, chiamato a Palazzo Chigi con il mandato di raschiare il più possibile dal calderone del budget dello Stato e le cui proposte radicali (come il taglio delle detrazioni e delle agevolazioni fiscali) si sono infrante contro la necessità di non bloccare la ripartenza di settori ancora asfittici e, più in generale, la fiducia di consumatori e imprese. Così anche con Renzi le lame delle cesoie sono state spuntate ancor prima di affondare nel grasso che ancora abbonda nel bilancio dello Stato. Ma Perotti già dato in calo nella classifica dei consiglieri del premier non è l’unico ad avere elaborato ricette salvifiche per i conti pubblici rimaste solo sulla carta.
In principio fu infatti Enrico Bondi, lo straordinario razionalizzatore della Parmalat distrutta dalla gestione dell’ex patron Calisto Tanzi e dal suo ragioniere Fausto Tonna, a subire lo stesso destino. A lui Mario Monti, succeduto senza voto a Silvio Berlusconi, affidò per la prima volta le forbici del taglio della spesa pubblica. Che in ossequio al modernismo si chiamò da allora spending review. Il programma era di quelli elefantiaci. Tra tagli, soppressioni e accorpamenti la cifra messa nero su bianco da mister Forbici era di 26 miliardi: 4,5 per il 2012, 10,5 nel 2013 e 11 per il 2014. Il tutto grazie a una serie di misure come la nullità dei contratti non stipulati attraverso la Consip, l’ormai celebre stop alle auto blu (che continuano a circolare indisturbate con colori diversi), il divieto di attribuire incarichi di studio e consulenza a personale in pensione. E il taglio delle Province a oggi ancora informalmente in vita.
Bondi lasciò senza ottenere i risultati ipotizzati. Dopo di lui, la parentesi da Mario Canzio della Ragioneria dello Stato non è nemmeno degna di menzione quanto a risultati ottenuti. L’idea della spending, come arma risolutrice dei mali della finanza pubblica, portò sulla sedia di mister Forbici un uomo del Fondo Monetario Internazionale, Carlo Cottarelli. Anche lui partì con target elevati: nel 2014 la stima prudenziale era di altrettanti tre miliardi che, spiegò in una dichiarazione di marzo dello stesso anno, sarebbero stati addirittura sette se l’anno fosse stato utilizzato in pieno. Poi un crescendo: nel 2015 l’obiettivo stimato era di 18,1 miliardi) e addirittura 34 miliardi nel 2016. Il suo piano comprendeva oltre a interventi choc sugli statali con tagli draconiani al personale anche la soppressione dei cosiddetti enti inutili, tra i quali il Cnel, l’Ice, ma anche l’Aran, l’Isfol, l’Autorità di controllo dei contratti pubblici e l’Enit. Tagli erano previsti anche nelle 8 mila partecipate degli enti locali e nel poltronificio conseguente. Anche del suo lavoro però molto è rimasto sulla carta, confermando la tesi che nel momento nel quale la politica riprende la supremazia nelle decisioni della cosa pubblica i tecnici, spesso invocati come salvatori, iniziano a fare le valigie. Cottarelli non è stato costretto alle dimissioni ma il suo incarico, scaduto a ottobre del 2014, non è stato più rinnovato. E anche i risparmi previsti nel suo piano di tagli sono rimasti un esercizio contabile. Con questo si arriva ai nostri giorni. E il risultato non cambia. Il compito di reperire fondi con la razionalizzazione della spesa è stato affidato da Renzi quest’anno a Yoram Gutgeld, deputato Pd, e a Roberto Perotti. La loro missione era scovare dai 10 ai 12 miliardi, da inserire nella legge di stabilità. Il risultato è noto. E ora resta solo da capire chi sarà il prossimo.
Filippo Caleri (Il Tempo)
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