Milano 20 Ottobre – Per Putin la lotta allo Stato Islamico è una questione di sicurezza nazionale. Lo zar del Cremlino prende molto seriamente le minacce e i proclami degli jihadisti di issare la bandiera nera sulle alte guglie della piazza Rossa di Mosca. I rapporti segreti che quotidianamente gli fanno avere gli agenti operativi che operano sul campo, in Siria, Iraq e Libia, e gli analisti arabofoni dell’FSB, il Servizio di Sicurezza Federale erede del KGB, lo preoccupano: le forze del califfato hanno sviluppato un livello di capacità militari e di organizzazione complessa tale da potersi infiltrare agevolmente in qualsiasi paese fuori dall’area araba.
Putin sa di potersi fidare ciecamente degli esperti dell’intelligence russa; lui stesso è stato a lungo funzionario del KGB e la scuola di lingua araba del Servizio di Sicurezza a Mosca è una delle migliori del mondo, dove hanno studiato intere generazioni di spioni e diplomatici russi e dei paesi alleati. Presso l’accademia dei servizi russi si sono poi addestrati i vertici dell’Idarat al-Mukhabarat al-Amma , il servizio di informazioni civile, e del Shu’bat al- Mukhabarat al-‘Askariyya, l’intelligence militare, del regime di Assad, i migliori conoscitori del fenomeno Isis, con i quali collaborano fianco a fianco gli agenti russi in Siria.
Ed è anche sulla base delle informazioni raccolte dagli agenti segreti sulla pericolosità dello Stato Islamico che Putin ha ordinato ai suoi aerei di bombardare le postazioni jihadiste in Siria e ha disposto l’invio di unità delle forze speciali russe per combattere al fianco dei soldati di Bachar El Assad contro le milizie islamiche. Nei giorni scorsi Putin ha ricevuto dai suoi agenti infiltrati nelle aree del califfato un dossier segreto, del quale ha voluto informare personalmente il principe saudita Mohammed bin Salman, erede al trono, che ha accolto nella sua dacia a Sochi, la famosa località sul Mar Nero riservata agli ospiti speciali e più intimi – spesso vi ha soggiornato Silvio Berlusconi – del capo del Cremlino.
Sulla base di indagini sofisticate durate molto tempo, compiute anche sui circuiti bancari internazionali, con pedinamenti in molte capitali e rilievi e foto satellitari, gli uomini del FSB hanno tracciato uno dei canali di finanziamento dei terroristi islamici e avrebbero anche raccolto le prove del coinvolgimento di altri paesi a favore del califfato: secondo il rapporto, pubblicato su alcuni media internazionali, ricchi sauditi, probabilmente estremisti e fanatici wahabiti, di sentimenti anti-sciiti e anti-occidentali, dei quali i russi non hanno svelato le identità, avrebbero inviato decine di milioni di dollari a Baghdad a Tareq al-Hashemi, che è stato vice presidente dell’Iraq dal 2005 al 2009 e capo del Partito Islamico iracheno. Al-Hashemi, sunnita, ex ufficiale dell’esercito di Saddam Hussein, è scappato dall’Iraq nel 2011 inseguito da una condanna a morte comminatagli dal Tribunale Supremo iracheno per essere stato il mandante di numerosi attacchi terroristici a Baghdad. Attualmente si rifugerebbe in Turchia, dove godrebbe della protezione del governo di Ankara. Hashemi avrebbe trasferito i fondi ricevuti dai sauditi sul conto di una società da lui controllata con sede a Londra. Da lì, l’ex vice presidente avrebbe inviato denaro, con numerosi movimenti di somme non ingenti per evitare segnalazioni, su un conto di una banca di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, intestato a Izzat al-Duri, ex generale di Saddam, il “re di fiori” nella lista delle carte americane dei “most wanted” del dopo Saddam e uno dei principali ispiratori e capi militari dell’Isis. Sarebbe stato proprio Al Duri lo stratega e il comandante delle forze islamiche che conquistarono nel giugno del 2014 la città irachena di Mosul. Lo scorso aprile, secondo alcune fonti militari di Baghdad, Al-Duri sarebbe stato ucciso durante un combattimento tra l’esercito regolare iracheno e le forze dell’Isis; la morte però non è mai stata confermata e anche l’esame del Dna effettuato sul presunto cadavere del capo jihadista non avrebbe portato a risultati certi. Ma il rapporto russo andrebbe oltre; milioni di dollari provenienti dagli Stati Uniti e destinati al governo autonomo del Kurdistan iracheno sarebbero invece arrivati nelle casse del califfato; i curdi avrebbero trasferito le somme ad inviati dello Stato Islamico dietro la fornitura di petrolio proveniente dai pozzi e dalle raffinerie controllate dalle forze jihadiste.
E le evidenze russe continuano: gran parte dell’arsenale dell’Isis proviene dalla fornitura di armi che diversi paesi occidentali hanno fatto arrivare alle forze dell’opposizione siriana e che questa avrebbe ceduto agli jihadisti. La Turchia, inoltre, avrebbe giocato, secondo gli analisti russi, su più tavoli; pubblicamente con la coalizione internazionale contro l’Isis da una parte, dall’altra però supportando e addestrando i miliziani islamici. I russi avrebbero scoperto le prove di un coinvolgimento diretto degli uomini del MIT, il servizio segreto turco, nell’acquisto di 300 pick-up Toyota, attrezzati con cannoni e dispositivi di comunicazione, che sarebbero stati forniti all’esercito islamico. Tecnici dell’esercito di Ankara, assegnati segretamente nelle zone a controllo islamico, assicurerebbero anche la manutenzione dell’equipaggiamento militare e logistico delle forze del califfato. Donazioni a favore dell’Isis, raccolte presso alcuni circoli islamici turchi, sarebbero conosciute e non ostacolate dalle forze di sicurezza del governo di Erdogan. Anche in Giordania, gli spioni russi avrebbero individuato centri segreti di addestramento e formazione per miliziani islamici coperti da alcuni imam locali.
La pubblicazione del rapporto russo ha ovviamente creato molti imbarazzi; alcuni commentatori ne hanno messo in discussione l’attendibilità, ma non si sono registrate prese di posizione o reazioni ufficiali dei paesi chiamati in causa. I collaboratori che hanno accompagnato il principe Mohammed bin Salman a Sochi hanno opposto un “no comment” alle domande dei giornalisti. Quale che sia la verità, è certo che il rapporto del FSB pone con evidenza la necessità che tutti i paesi si impegnino inequivocabilmente nella lotta allo stato islamico, senza se e senza ma. La minaccia è reale e non possiamo perdere più tempo in chiacchere.
Paolo Dionisi (L’Opinione)
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