Bar e ristoranti in Galleria….non tutti da promuovere.

Milano

Milano 31 Ottobre – Anche Umberto Boccioni, che nel 1910 dipinse la «Rissa in Galleria», provocata da due avvenenti dame al Caffè Campari, non rimarrebbe deluso di come appare oggi il salotto di Milano. La frizzante luce futurista di una città dinamica in continuo cambiamento rimane intatta 105 anni dopo. La Galleria Vittorio Emanuele II, inaugurata nel 1867, resta ambita dai brand internazionali e sogno di ogni negoziante, patron o cuoco (Carlo Cracco aprirà lì, negli spazi ex Mercedes, per i quali verserà al Comune un canone annuo di 1.090.000 euro). Ma se architettonicamente mantiene lo smalto come il più grandioso dei passage, la Galleria non mantiene lo stesso livello, gastronomicamente parlando, per tutta la sua lunghezza. Chi si siede sotto la cupola che ispirò la Tour Eiffel è il viaggiatore o il milanese nostalgico.

Nella maggioranza dei locali, la Galleria riproduce le stesse proposte che si leggono sui menu esposti, a Venezia, nel tragitto da Rialto a San Marco: i piatti iconici italiani riconfezionati (ovvero peggiorati) in versione turistica. A parte il risotto alla milanese, di esausto colore giallino e sciapo al sapore, ecco comparire quasi dappertutto: una striminzita caprese; il prosciutto e melone (anche a gennaio); il risotto alla parmigiana; cocktail di gamberetti stile anni 80; trofie al pesto color sottobosco; spaghetti alla Bolognese; lasagne stile mensa ferroviaria; tagliata di manzo appena passabile; pennette all’arrabbiata, dove si sente solo il peperoncino. Piatti con un costo che va dai 15 ai 30 euro. Nessuno scandalo, visto il posto carico di suggestioni storiche ed artistiche, se adeguati fossero le cotture, il servizio e la qualità degli ingredienti.

 Tra le lodevoli eccezioni il laterale Park Hyatt, con la stella del napoletano Andrea Aprea che brilla al Vun; il Savini, il ristorante-vetrina di Verga, Verdi, Quasimodo, Carrà e cento altri nomi della cultura con le proposte del cuoco milanese Giovanni Bon; la pizzeria «I 12 gatti», che, appena aperta sul versante Scala, parte bene, con una pizza ben fatta e taglieri di salumi di livello, accanto a pasta fresca e filetti. Dalla parte opposta della Galleria, verso il Duomo, non ingrana il Pavarotti, che stenta a trovare la sua identità di trattoria modenese doc (la tagliatella dovrebbe essere inappuntabile, ma non è).

In Galleria il caffè è mediamente accettabile, e la caffetteria Gucci mantiene nome e servizio di classe anche ai tavolini. Gli aperitivi si consumano ovunque, con un picco per esperienza e atmosfera al Camparino di Orlando Chiari. Tra nuove aperture e recuperi, al magnate Alessandro Rosso va il merito di aver riattivato locali con affaccio tra i più prestigiosi d’Italia, compresa una Penthouse Suite hollywoodiana, ma purtroppo non possiede ancora la stessa lungimiranza nel campo della ristorazione. Lo dimostrano il già citato Pavarotti e la chiusura del ristorante Duomo 21, la cui cucina è sotto la guida del milanese Antonio Citterio. Lo stesso chef che governa il ristorante del gioiello di Rosso, il Seven Stars Galleria: 7 lussuose suite, disegnate da Ettore Mocchetti. Qui è il cuoco a proporre i piatti, che però non convincono.

Chi vuole vedere la Galleria dall’alto, dalla scorsa primavera può godersi la «Highline Galleria», una passerella tra i tetti lunga 250 metri su una superficie di 550 mq. La camminata è un incanto di notte (dalle 9 alle 23 e 6). Peccato che non lo sappia nessuno perché l’ingresso è da via Silvio Pellico 2.

Roberta Schira (Corriere)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Moderazione dei commenti attiva. Il tuo commento non apparirà immediatamente.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.