Milano 23 Novembre – In questi giorni il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Franco Roberti ha posto il tema della necessità di rinunciare anche a dei diritti sin qui tutelati, dalla privacy alla piena libertà di spostamento, in nome della tutela della vita e della sicurezza. Per me da liberale va detto un chiaro e secco no al Grande Fratello del controllo remoto pubblico esteso a tutti, senza filtri giurisdizionali e tutele. Non mi va giù poi poi l’idea che a teorizzare la necessità di limitazioni generali della libertà sia chi nella realtà ha la responsabilità di aver messo in piedi un sistema pubblico italiano che sulla sicurezza spende molto – a differenza di quel che si crede, e come lamentano i politici a caccia di voti – e spende MALISSIMO, come i numeri che richiamo sotto palesemente mostrano. A maggior ragione se vogliamo difendere le nostre libertà bisogna invece spendere MEGLIO: in tecnologie e uomini, hardware e software, per filtrare e analizzare e concentrare le informazioni laddove servono. Ora che le maglie del patto di stabilità europeo si sono allentate sotto la travolgente richiesta francese ( e Renzi ci è saltato subito sopra, ma il patto di stabilità che ormai fa acqua da tutte le parti merita un PS a parte), è innanzitutto questo il settore che il governo deve potenziare.
Se esaminiamo le spese di sicurezza dell’Italia in termini comparati, notiamo due evidenti contraddizioni.
La prima è che per le forze di polizia spendiamo in realtà non poco, anzi più della media europea. Eurostat certifica che a fronte di una media dell’euroarea dell’1,7% di PIL di spesa in sicurezza e ordine pubblico, l’Italia spende il 2%: rispetto all’1,6% di Germania e Francia. Se pensiamo ai bilanci delle sole forze dell’ordine, l’Italia spende l’1,2% del PIL rispetto allo 0,9% della Francia e allo 0,7% della Germania. Spendiamo di più, ma spendiamo peggio: ed è il solito pluridecennale problema dei troppi diversi corpi di sicurezza italiani, carabinieri, polizia, guardia di finanza, forestali, e via proseguendo. Ci hanno sbattuto la testa inutilmente tutti i commissari alla spending review susseguititi negli anni, ma la politica non riesce a compiere scelte energiche. Troppe incrostazioni storiche, competenze sovrapposte, rivalità nel procurement dei mezzi, e contrapposte tutele politiche a tutela dei diversi e troppi corpi dello Stato.
Seconda contraddizione: nella difesa spendiamo meno. Siamo allineati alla media dell’eurozona pari all’1,2% del PIL, ma la Francia sta all’1,8% e il Regno Unito al 2,3%. Ma anche qui spendiamo peggio. Se ci fermiamo alla sola funzione difesa ristretta – depurata dei costi dei carabinieri e di ciò che sta a carico del bilancio del ministero ma non costituisce appunto la funzione difesa vera e propria – si scende allo 0,8% del PIL. I tagli di spesa alle forze armate sono stati di quasi il 10% in termini reali in 10 anni. I costi per l’acquisizione di nuovi velivoli e piattaforme navali sono a carico ormai quasi sempre del MISE ma, malgrado i pesanti impegni di questi anni su teatri operativi del massimo impegno e rischio come Iraq e Afghanistan, i fondi di esercizio sono stati dimezzati. A carico delle forze armate resta il bilancio previdenziale del settore, restano troppi dipendenti civili, e troppe migliaiaia di sottufficiali non operativi. Ce la possiamo sognare, l’operatività dei francesi e dei britannici. E del resto alla politica italiana è sempre andato bene così: pronta a gonfiarsi il petto logorando uomini e mezzi in missioni “di pace” che in realtà lo erano a parole, ma usando la difesa come bancomat per smentire ogni volontà interventista.
E veniamo al terzo punto, quello oggi più decisivo contro il terrorismo jihadista: l’intelligence. Com’è ovvio sono riservate le spese di AISI e AISE, le due costole esterna e interna dei servizi italiani. La stima è intorno agli 8-900 milioni di euro. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, l’altroieri il cancelliere dello scacchiere britannico Osborne ha annunciato un aumento della dotazione annuale di MI5 e MI6 pari a 1,9 miliardi di sterline con 1900 nuovi addetti, mentre per la sicurezza tecnologica affidata al GCHQ, l’equivalente della NSA americana che dai satelliti ai computer sorveglia le comunicazioni mondiali, il Regno Unito spende circa 4 miliardi di sterline. Le cifre dicoo che siamo dei nani, nella comunità delle grandi reti di intelligence mondiale. E paghiamo quattro soldi chi, nel campo della cyber-security, nel mondo privato ha invece retribuzioni stellari.
Ecco: invece di farci raccontare dai magistrati che occorre limitare le nostre libertà perché ce ne siamo prese troppe, invece di ascoltare i politici che spacciano per spese antiterrorismo quelle devolute a un welfare maltravestito in organici pletorici e pluralità di sovrapposti corpi dello Stato, cerchiamo di batterci invece per avere una cultura e uan comunità dell’intelligence all’altezza delle tecnologie e competenze dei nostri tempi.
- Quanto al patto di stabilità europeo, di fatto a mio avviso siamo in presenza di un decesso seppur non dichiarato. Già si era capito di fronte all’inesistenza di margini di flessibilità del fiscal compact rispetto alle spese pubbliche addizionali necessarie per affrontare l’esplosione del fenomeno dei profughi, che le regole europee non tengono conto di imprevedibili ma gigantesche circostanze straordinarie che possono abbattersi sui paesi membri (sulla furbata renziana di chiedere l’attivazione di una clausola di flessibilità per l’imigrazione per usarla invece ad altri scopi, meglio stendere un pietoso velo). Se si aggiunge che i metodi per calcolare gli effetti del ciclo restano ancora tecnicamente aperti a letture diverse – per il governo italiano nel 2016 l’Italia rispetta la regole del rientro del debito, per Bruxelles non avverrà che nel 2017 o 2018, come si legge nella pagella emessa l’altroieri, con cui si rinvia ad aprile 2016 il giudizio sulla legge di stabilità– si comprende che in realtà il fiscal compact tanto temuto è diventata di fatto una coperta tirata da troppe parti. Inoltre, il visto di piena conformità già concesso intanto da Bruxelles al budget della Francia, che nel 2016 terrorismo a parte prevede comunque di restare a un deficit pubblico del 3,3-3,4% del PIL, rende chiaro che le obiezioni all’Italia lasceranno il tempo che trovano, visto che nel nostro caso il deficit programmato è nell’ordine dell’1% di PIL inferiore. Personalmente aggiungo: purtroppo, lasceranno il tempo che trovano. Perché condivido dalla prima all’ultima parola i rilievi critici mossi d Bruxelles al governo Renzi: aver abbandonato di fatto una qualunque strategia ambiziosa di revisione della spesa, aver destinato ai tagli IMU-TASi quanto era meglio concentrare su sgravi a imprese-lavoro, nonché l’indifferenza sostanziale a un gigantesco debito pubblico che potrebbe presto tornare a rivelarsi assai più caro, se guardiamo ai rischi finanziari potenziali di un mondo che rallenta, in cui la FED rialza i tassi, e con i BRICS piantati ma indebitato in dollari.
Oscar Giannino (Leoni blog)
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