Milano 2 Dicembre – “Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”. Può darsi che il vecchio Carl Schmitt esagerasse. In fondo era pur sempre un figlio del “secolo dell’eccezione”. Ma è vero comunque che la statura di un leader si misura sulla capacità di decidere, sul coraggio di tagliare i nodi gordiani piuttosto che cercare di sciogliere ciò che, per essere sciolto, richiederebbe tempi lunghi e percorsi tortuosi. All’inizio del suo raid fulmineo nel Pd e nella politica italiana, anche Matteo Renzi prometteva di essere un leader. Uno capace di rottamare non soltanto generazioni colpevoli di tutto, dal diluvio universale in poi, ma anche e soprattutto una prassi fatta di mediazioni estenuanti, di veti incrociati, di convergenze parallele e di corporativismi sghembi. Di commissioni formate per non decidere. Di inchieste senza conclusioni. Di leggi mai applicate. Di rinvii sine die. Di cinici “se po fa’”. Sembrava ispirarsi più a Craxi che a Forlani. Vagamente veltroniano ma più ancora seguace di Kierkegaard: più “aut-aut” che “ma anche”, insomma. La suggestione era così potente che Silvio Berlusconi sembrava intenzionato ad avviare le pratiche per l’adozione. Ecco, diceva, lui sì che può decidere, a fare quello che anch’io avrei voluto fare, perché non è costretto come me a subire i condizionamenti e le pretese di alleati molesti.
Invece no, la stoffa non era quella. Nei mesi della sua presidenza, si è accuratamente tenuto lontano dai casi spinosi, dalle calamità e dalle emergenze “minori”, rifiutandosi sistematicamente di modificare la sua agenda politica per fronteggiare le situazioni di crisi. Quelle su cui non si possono fare battute. La cartina di tornasole però è soprattutto l’atteggiamento di fronte al terrorismo islamista. D’accordo, la battaglia non si vince sparandola grossa, esplodendo cannonate di chiacchiere roboanti. Ma dire che non servono “prove muscolari” quando l’Isis sta prendendo il controllo della costa libica, a pochi chilometri da qui, è fare un’affermazione sconfortante, del tutto priva del senso di responsabilità che i cittadini si aspettano da un “comandante in capo”.
Persino il debole Hollande, tolto il casco con cui si mimetizzava durante le sue scappatelle notturne, ha mostrato di avere carattere. Non si è nascosto, a costo di andare in tilt, come già gli è successo in passato. Si è rimboccato le maniche e ha cercato di mettere insieme una coalizione – o due – per fare quello che da tempo si sarebbe dovuto fare: scoprire il bluff dello Stato islamico e della sua invincibilità. È che sui presidenti francesi, quale che sia il loro partito, continua ad aleggiare il fantasma del generale De Gaulle, uno a cui il coraggio di decidere non mancava di certo. E quello, come avrebbe detto Costantino Mortati, continua ad essere, nel bene e nel male, “l’indirizzo politico” della République.
A noi, invece, è toccato un re travicello. Perché, in fondo, Renzi un po’ si sente un re, ma unmonarca pop, preoccupato di galleggiare nel mainstream dell’opinione pubblica di un Paese a cui piace sentirsi confermato nel suo quieto vivere, che ha rimosso dal suo orizzonte la possibilità di essere chiamato a prendere posizione, a lasciare da parte l’ecumenismo imbelle a cui si è abituato da tempo, a guardare fuori dai propri confini per assumersi le responsabilità che gli competono. Prima di tutte quelle che hanno a che vedere con la sicurezza degli italiani. Invece il nostro premier, di fronte a un mondo in ebollizione, alla mobilitazione dei nostri alleati, a un Mediterraneo che, di fatto, è già un mare di guerra, si inventa la solita arma di distrazione di massa. Il colpo di teatro dell’ennesima mancia, questa volta ai diciottenni. A tutti, anche ai nipoti di Paperone, violando il principio delle pari opportunità, come gli rimprovera una rivista amica come “Il Mulino”.
Perché, si sa, il problema è “la cultura”. Sarà un po’ démodé sostenerlo, ma l’alternativa sarebbe invece quella di spiegare ai nostri giovani – in età di leva, si sarebbe detto un tempo – che anche su di loro graverebbe il dovere di difendere la Patria. Con la maiuscola, tanto per non farci mancare nulla. Invece, il messaggio è la svalutazione, l’esclusione dello spirito repubblicano. Altro che “Allons, enfants de la Patrie…”. Massimo Cacciari dice che bisognerebbe chiamare il 118. L’uomo, si sa, spesso abusa dei paradossi ma questa volta ne ha scelto uno efficace.
L’indecisionismo sembra però la cifra dell’ultimo Renzi anche sul fronte interno. All’iniziativa di Francesco Rutelli su Roma dell’altro giorno, si è vista una sfilata di dirigenti del Pd intervenire per dire che nel partito non c’è un posto in cui discutere, che non c’è nessuno che si assuma delle responsabilità. Ma vale anche per l’incredibile groviglio del dopo Pisapia a Milano. Vale per il balletto sul candidato sindaco di Bologna, per il “caso De Luca”, per la “moratoria” sulle primarie escogitata per sminare la bomba dell’autocandidatura di Bassolino, per il destino della giunta siciliana di Crocetta. La deriva sembra non avere fine, ed è improbabile che basti, come suggerisce qualcuno, che il presidente del Consiglio dedichi uno o due giorni alla settimana a fare il segretario del Pd. Il problema è un altro: culturale, come direbbe Renzi. Chiama in causa, appunto, la qualità, la forza della sua leadership. Perché Renzi sarà pure, come scrive Michele Salvati, uno dei padri del Pd, “ il primo segretario post-ideologico”. Ma, se continua così, viene il dubbio che sia solo un post. O al massimo un tweet.
Emilio Russo (L’Intraprendente)
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