Milano 11 Dicembre – Proponiamo l’inchiesta di Francesca Sironi su L’Espresso perché è uno sguardo analitico sul mondo universitario milanese e, contemporaneamente, la constatazione di un’eccellenza culturale non solo a livello nazionale.
Milano? per tutti è la moda, il Duomo, il design, i cumenda, l’happy hour. Raramente si pensa alla città per le sue università. Eppure è dentro gli atenei che oggi risorge quella centralità persa con il tramonto dei salotti buoni dell’industria e delle banche sempre più in crisi. Con 183mila studenti, 36.320 dipendenti fra professori e segretari, 400mila metri quadri occupati soltanto dal Politecnico, un mercato frenetico di appartamenti e posti letto per fuori sede, le facoltà milanesi sono diventate una metropoli nella metropoli. Un motore che ha cambiato la fisionomia di interi quartieri, che attrae capitali, che importa giovani dall’estero e mette i semi di nuove startup. Un motore pronto a conquistare, adesso, i resti del post-Expo.
CAPITALE DELLE LAUREE
Più di una matricola su 10, in Italia, ha scelto Milano per instradarsi verso la laurea, quest’anno. Per la precisione, il 13 per cento del totale nazionale. Dieci anni fa era l’11: i neo-iscritti sono in calo ovunque, ma qui meno che altrove. Perché? Per intuirlo basta osservare l’ombra lasciata dagli aspiranti alle facoltà a “numero chiuso”: al test di Ingegneria del Politecnico hanno partecipato a settembre 11.380 ventenni. Nel 2011 erano 7mila e 700, per lo stesso numero di posti (circa 5.500). In Statale hanno dovuto trovare spazio per far svolgere la prova a migliaia per poche centinaia di posti in Beni Culturali, Scienze della comunicazione, Biotecnologie, Chimica e Informatica (+19 per cento). Lo stesso per le facoltà di Medicina, con l’assalto ai corsi in inglese.
Cos’hanno di così sexy gli atenei milanesi? «Semplice: troviamo lavoro, diamo certezze», è la prima risposta di Graziano Dragoni, direttore generale del Politecnico: «Per alcuni nostri indirizzi l’occupazione dopo la laurea è del 100 per cento». Insomma: pensano subito al futuro, i ragazzi. Ma c’è anche altro: «Conta la qualità. A Milano competiamo con il resto del mondo, non solo con l’Italia», riassume Andrea Sironi, rettore della Bocconi, dove il 75 per cento dei frequentanti arriva da fuori Lombardia: «Per ingegneria, economia, design e medicina la Ricerca attrae qui fondi di eccellenza e premi europei. E con la nuova generazione di rettori stiamo facendo sistema».
PUBBLICO E PRIVATO MANO NELLA MANO
Il “sistema” è una terza via fra cooperazione e concorrenza intrapresa nel 2012 da atenei pubblici e privati, insieme: Cattolica, Politecnico, Bocconi, Statale, San Raffaele, Humanitas, Bicocca. La funzionaria del Comune Giuseppina Corvino ricorda bene quella prima riunione “galeotta” che fece scattare l’amore fra dei rettori appena eletti, convocata a Palazzo Marino per rendere la città più favorevole agli studi: «C’era un entusiasmo nuovo», racconta: «Oggi Milano è la seconda meta scelta in Europa dagli studenti in Erasmus, dopo Barcellona». Oltre ad assessori e dirigenti si sono imbarcate poi le accademie (dal Naba alla Marangoni, al Conservatorio), Camera di Commercio, fondazione Cariplo, in parte Assolombarda, i musei.
I rettori delle università milanesi all’inaugurazione di Meet me Tonight, la notte della Ricerca
Ne è nata un’intesa che sta dando i primi risultati. A partire daiservizi per aiutare iscritti e docenti stranieri negli ingorghi burocratici del permesso di soggiorno e negli obblighi fiscali: ostacoli che tengono l’Italia ai margini rispetto ai poli che attraggono talenti con visti agevolati e prestiti. Da noi non è possibile, ma con queste innovazioni, dicono, si prova almeno a dare una mano. Poi: una card di sconti per la cultura. E ancora accordi “trasversali”. Una coppia di super-ricercatori di Chicago, ad esempio, si è appena trasferita sui Navigli grazie a uno scambio che permetterà a lui di insegnare in Bocconi e a lei di continuare i suoi esperimenti in Statale. Alcuni atenei stanno pensando di avviare anche Phd interdisciplinari fra sedi, per aumentarne l’impatto.
CHE RICCHEZZA LE MATRICOLE
Il risultato è concreto: gli universitari stranieri a Milano sono oggi 12.301, il 6,7 per cento degli iscritti, triplicati rispetto al 2004. A Roma sono il 4,6. In Italia la media è del 4,2. Attrarre giovani dall’estero è diventata un’esigenza per gli atenei italiani, colpiti dalla crisi di vocazioni post-diploma e dalle imposizioni ministeriali in termini di classi, docenze e contributi alla Ricerca. Anche per questo i dipartimenti puntano ai master e ai corsi in inglese per internazionalizzarsi. Nonostante le proteste della Crusca (e di diversi prof) al Politecnico le magistrali “English speaking” sono passate da 7 (nel 2006) a 35, e gli stranieri iscritti sono oltre duemila, arrivati da Iran, Cina, India, Turchia, Colombia. Humanitas, con la medicina in inglese, ha fatto subito il pieno.
In occasione di Expo la Camera di Commercio ha stimato un indotto per la città pari a duecento milioni di euro dagli iscritti extracomunitari. Soltanto di pagamenti diretti, per frequentare lauree e master, gli allievi milanesi versano più di 670 milioni di euro all’anno, extra rispetto ai fondi ministeriali. «Le università sono generatori di ricchezza», conferma Gianluca Vago, rettore della Statale: «Ricerche dimostrano che dove c’è un ateneo che attrae, le istituzioni investono per migliori infrastrutture, che servono a tutti. Poi ci sono le spese dei ragazzi per vitto e alloggio, certo, ma anche uno sviluppo a lungo termine: i laboratori portano brevetti, quindi tecnologia, quindi potenziale innovazione».
Potenziale, perché le aziende lombarde non sembrano così ricettive nei confronti degli atenei: «È difficile convincere le piccole imprese a “sfruttarci”», racconta il direttore generale del Politecnico: «Insistiamo, fondiamo consorzi e reti. Ma ora i nostri sforzi sono soprattutto nelle startup». Altre gocce di ricchezza possibile che cadono qui e là: le società di ricercatori, dottorandi, professori, che spendono per portare sul mercato le loro idee. Sono il must del momento. Ogni ateneo ha il suo spazio. La Bocconi ad esempio ha appena aperto, insieme al Comune e alla Camera di Commercio, un nuovo “incubatore”, riservato ai giovani che vogliono fondare capitali. E ogni ateneo vanta le sue esperienze, riuscite o meno.
CARO AFFITTI
Milano diventa così la città-esperimento dove si affacciano sempre più co-working, uffici condivisi da freelance (anche la Cgil ne ha inaugurato uno); si aprono bar dove una scrivania con wifi e caffè costa 200 euro al mese; Palazzo Marino investe in spazi per creativi dentro l’ex Ansaldo; o ancora i locali promuovono “lavoro e brunch” la domenica. Tutto questo attivismo non riesce ancora, però, a trasformarsi sempre in reale opportunità di un futuro, lasciando che la disoccupazione continui così a invitare alla fuga migliaia di giovani ben formati, ora anche in inglese, dalle sedi lombarde.
E il boom degli affari intorno all’università ha prodotto anche nuove disuguaglianze: «Vedi quelle case? Hanno prezzi inaccessibili, per noi: 650 euro al mese la singola, 350 in doppia», raccontano due ragazze del “Collettivo studenti” di Bicocca passeggiando fra le costruzioni di fianco ai dipartimenti. Sugli alloggi a fitti calmierati Statale e Bicocca riescono a rispondere al 60 per cento delle domande, la Cattolica al 70, Bocconi al 56, il Politecnico – che ha il maggior numero di richieste – al 35, e sta infatti cercando di costruire nuovi posti letto.
Intanto le attiviste mostrano anche altro. Ad esempio il libretto per i voti, diventato una carta di credito: ogni matricola è costretta ad aprire un conto con la Banca di Sondrio. O gli spiazzi di cemento fra le aule, dove, dicono: «Se proponi anche solo una merenda pubblica arrivano i vigilantes privati perché “non si possono fare assembramenti”».
Ma non dovrebbero essere spazi di confronto? «È vero. Le facoltà devono avere il coraggio di riportare in primo piano il loro fondamento: quello di essere un luogo libero, laico, indipendente di produzione del sapere», riflette Vago. C’è però qualcosa che non ha perso un passo, in questi anni: ed è il cambiamento della città a fianco dell’espansione delle università.
La ciminiera si staglia a due passi da dove avanza una ragazza sui tacchi con la corona d’alloro, applaudita dai parenti. La vecchia Milano si sovrappone alla nuova. Le aule e i laboratori, le feste di laurea e gli afterhour di matricole, sfondano gli spazi lasciati vuoti da rulli e raffinerie. «La città ha bruciato 200mila posti di lavoro nel settore manifatturiero, negli ultimi trent’anni. E ha conquistato 200mila studenti», racconta l’assessore all’urbanistica Alessandro Balducci, ex prorettore del Politecnico: «L’università è stata il motore delle più grandi trasformazioni urbane dell’ultimo periodo, a Milano: le periferie delle ex fabbriche sono state occupate dall’insegnamento».
È successo in Bicocca, fra il 1991 e il ’99, con i dipartimenti della Statale a prendere gli ingressi di quella che un tempo era la vastità Pirelli. È successo in Bovisa, dove dal 1992 al 2008 il Politecnico ha riempito di designer le strade scivolate nel degrado alla scomparsa di Montecatini, Ceretti & Tanfani, Officina del Gas. Studenti al posto di operai. Oggi gli universitari a Milano sono il 13,6 per cento del totale dei residenti. A Roma, la capitale dalla monumentale Sapienza, sono il 6,6. La metà. Ed è un record anche a livello europeo, batte persino Londra che è sotto il 5 per cento.
AULE AL POSTO DI EXPO
La Statale si è detta pronta a portare questa svolta – la forza dei banchi contro l’abbandono in periferia – nell’area rimasta vuota dell’Expo. Propone di trasferire 20 dipartimenti e sedi per gli esperimenti scientifici. Ma ora attende di capire come si accorderà il suo piano con quello presentato invece dal premier Matteo Renzi: un maxi-centro di Ricerca che ha come capofila l’Istituto italiano di Tecnologia di Genova. Aspettando che governo, Comune e Regione definiscano la partita dei fondi e degli spazi, una cosa è certa: i padiglioni smantellati dovranno far largo a libri e microscopi.
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