Ode liberista al grande Checco Zalone

Cultura e spettacolo

Milano 4 Gennaio – Dopo la botta narcotizzante del discorso di fine anno di Mattarella, ci voleva la scarica di risate e adrenalina del film di Checco Zalone, per riprendersi dalla terribile sonnolenza capodannesca. In tanti si chiedono come faccia questo comico-cantante venuto dalla provincia del Sud, che non ha mai frequentato accademie di teatro e corsi d’élite di recitazione o conservatori di musica, a incassare sette milioni di euro in un solo giorno, vendendo oltre 1 milione di biglietti in Italia.

La prima ragione è che Checco riempie le sale cinematografiche perché non parla ai salotti buoni, ma li mette alla berlina. È capace di fare cinema pop senza quell’ossessione radical-chic di fare cultura, che poi spesso si traduce in film talmente di nicchia da diventare film di minchia, come dice lui. Pellicole d’essay che altro non sono che corazzate Potëmkin, cioè cagate pazzesche. Checco Zalone e il suo Quo vado? sono la risposta al deserto di programmazione che spesso, davanti a un cinema, ti porta a chiedere disperato Quod vedo? (cioè, stasera “che diavolo vedo?”).

L’altra ragione è che Checco Zalone è in grado di fare ironia sia sui rottamatori che sui rottamati, di fustigare i costumi della vecchia classe dirigente (come nella sua ultima perla musicale, La prima Repubblica) ma anche di scherzare sul nuovismo di chi ci governa adesso, di sbeffeggiare sia il mito del posto fisso che l’ideologia del lavoro mobile (in movimento, in mobilità e con l’uso di apparecchi mobili) consacrata dal Jobs Act renziano.

Ma soprattutto Checco Zalone ottiene successo perché non ha paura di stare sul mercato, di fare film, di confrontarsi con il riscontro del pubblico; perché si guadagna i suoi soldi facendo ridere e convincendo con il suo talento le persone ad acquistare il biglietto, senza ricevere corposi cachetdalla tv di Stato, come fanno i Benigni e i mammasantissima della comicità perbenista e d’apparato. Checco Zalone è la vittoria liberale della risata che sconfigge cachet e cliché, è una ventata d’aria pura in un sistema ingessato, che sopravvive alimentandosi di soldi pubblici e di sovvenzionamenti a pioggia. Lui si guadagna il pane (e alla grande) coi soldi veri di chi sceglie liberamente di vedere i suoi film.

E questo capita perché Checco se lo merita, è un artista eclettico che imita, canta e inventa battute; rappresenta, oltre che il trionfo del mercato, anche la vittoria della meritocrazia, che non abbisogna di scuole, di spinte, di appoggi, di strumentalizzazioni politiche, di tessere di partito o di egemonie culturali, per emergere. No, chi è bravo si autoafferma. E lui ne è la dimostrazione (ed è unaconsolazione, per i tanti talenti nascosti, vera economia sommersa del nostro Paese).

Zalone parla una lingua – quella della comicità, dell’intelligenza – che diventa codice comune agli italiani, in cui tutti si riconoscono, quanto più Checco mantiene la sua cadenza dialettale, la sua parlata barese. A dimostrazione che si può essere universali solo se si conserva un forte retaggio local e si rivendica quel particolarismo linguistico come specificità, valore aggiunto. È il federalismo della comicità, il suo campanilismo, che rende questa risata ancor più nazionale.

Da ultimo Zalone vince perché è il simbolo di un Sud che ride e fa ridere anziché piangere. Che non si lamenta ma canta, che non chiagne e fotte ma si diverte e sfotte. È la fine della lamentazione, dell’autocommiserazione, e l’inizio dell’autoironia, della risata che ci insegna a guardare ai “problemi del Mezzogiorno” con distacco, senza farne una “questione” e una “questua” continue.

È anche per questo che noi che scriviamo (che proveniamo dalla sua terra e siamo un po’ “cozzaloni” come lui) lo sentiamo spiritualmente, oltre che geograficamente vicino. E alla domanda «Quo Vadis? (dove vai?)», sapremo rispondere «al cinema, a vedere Quo vado?».

Gianluca Veneziani (L’Intraprendente)

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