Milano 12 Gennaio – Se toccate il deserto a Exequiel Ezcurra, reagisce come un padre che difende suo figlio: «E’ una delle cose più incomprese e preziose della Terra. Bisogna difenderlo con tutte le nostre forze, perché nasconde ricchezze straordinarie». Ezcurra, direttore dello UC Institute for Mexico and the United States e professore di Botanica alla University of California di Riverside, è l’autore del Global Deserts Outlook pubblicato dallo United Nations Environment Programme. In altre parole, ha dedicato la vita a queste lande disperate che occupano inutilmente un quinto del nostro pianeta.
Oppure ci sbagliamo, a parlare così?
«È un errore grossolano. La gente pensa ai deserti come terre brulle senza valore, e tenta di farle diventare verdi. Esiste anche una Convenzione internazionale sulla desertificazione, di cui io critico da sempre persino il nome, oltre all’idea. Se un ecosistema tipo la foresta tropicale si degrada, non si desertifica: diventa semplicemente una foresta degradata. Il deserto è un’altra cosa. È un ambiente estremamente ricco, e bisogna convincere i governi che ha un valore da proteggere».
Ci farebbe qualche esempio?
«Pensate alla macchia che avete in molte zone d’Italia. Quello stesso ecosistema, con piante e animali simili, lo ritrovate dalla Francia alla California. I deserti no. Proprio per le loro caratteristiche fisiche, sono come isole, diversi gli uni dagli altri in termini di evoluzione. I cactus che vedo nel Sonora dell’Arizona non esistono nel Sahara, mentre le piante che somigliano alle pietre le trovi solo in Namibia. Stesso discorso per gli animali. Sono tutti habitat preziosi e unici, e se vengono distrutti non hanno alternative, spariscono per sempre».
Fa caldo, però.
«Quella del clima è un’altra banale generalizzazione. Per sfatarla, abbiamo registrato le temperature medie di alcuni deserti, e i risultati sono stati illuminanti. Nel Sahara egiziano, davanti al mare, c’è un’escursione termica di circa dieci gradi tra l’estate e l’inverno, mentre nell’Atacama del Perù è zero: non ci sono mutamenti significativi da stagione a stagione. Se però andate nel Gobi, tra Cina e Mongolia, si passa da meno trenta gradi d’inverno, a più cinquanta d’estate».
Come si sopravvive, in situazioni così estreme?
«La vita esiste da circa 3.000 milioni di anni, ma si è trasferita sulla terraferma solo da 500 milioni. Questo significa che tutti gli esseri, homo sapiens incluso, sono fatti in larga parte di acqua. Dunque il deserto, proprio per l’assenza di questo elemento fondamentale, offre gli esempi più interessanti e bizzarri di adattamento. Avendo poca acqua, infatti, i suoi abitanti devono imparare a vivere senza per lunghi periodi, e poi farne un uso molto rapido e intenso quando la trovano. Così ci sono i cactus che fanno la fotosintesi nelle spine, le piante dotate di radici che scendono fino a cento metri sotto la superficie per cercare un po’ di umidità, e gli animali come alcuni topi che producono la propria acqua, attraverso il metabolismo. Poi ci sono le forme di vita effimera, che in sostanza sopravvivono per periodi molto lunghi in forme simili alla morte. Ad esempio i semi che rotolano nella sabbia per tre o quattro anni, ma appena arriva un poco di acqua si trasformano subito in piante e producono moltissimi altri semi, per garantire la riproduzione prima di morire. Ci sono le rane che quando il fango si secca scendono in una specie di stato di ibernazione, dove minimalizzano il metabolismo e vivono come mummie anche per dieci anni, fino a quando torna l’acqua e loro tornano a vivere. Oppure l’agave, con cui si fa la Tequila, che può sopravvivere per venti o trenta anni come semplice foglia, accumulando l’acqua, fino a quando si riproduce in un’orgia frenetica a cui partecipano migliaia di insetti».
Molto affascinante per un professore che ha dedicato la sua vita al deserto, ma perché dovrebbe interessare le persone normali?
«La scorsa estate il deserto Atacama del Perù è stato invaso dai turisti. Volavano apposta dall’Europa, per vederlo. E sa perché?».
No.
«È un deserto molto secco, dove in apparenza non succede nulla. Circa il 95% dei deserti sono così. Poi è arrivato El Nino, e all’improvviso ha piovuto come non faceva da moltissimi anni. In pochi giorni l’Atacama è diventato un giardino fiorito spettacolare, perché noi non lo vedevamo, ma era pieno di migliaia di semi che erano sopravvissuti così per decenni, in attesa della pioggia provvidenziale che avrebbe consentito loro di crescere in breve tempo, e quindi riprodursi».
Bello per una foto, ma poi cosa resta?
«Cosa mangiate voi ogni giorno? Pasta fatta con farina di grano, pane di segale, polenta di mais, orzo. Sono tutti cereali che si sono sviluppati nel deserto o ai suoi confini: grano, segale e orzo nella Mesopotamia; il mais in una valle arida del Messico. Il sorgo e il miglio che da secoli sfamano l’Africa vengono da regioni ai confini col Sahara, e le patate sono originarie di una zona secca delle Ande. In pratica tutti i raccolti più diffusi, tranne il riso, hanno origine nel deserto o lungo i suoi bordi. Sapete perché? La scarsezza di acqua ha spinto queste piante a modificarsi, sviluppando la capacità di crescere molto in fretta, appena c’è un po’ di umidità, e produrre molti semi, per garantire che qualcuno cada sopra una terra fertile e consenta la riproduzione. Queste, però, sono esattamente le caratteristiche che noi vorremmo in tutti i nostri raccolti, e quindi fin dall’antichità abbiamo apprezzato le qualità di questi cereali del deserto e li abbiamo sviluppati, portandoli ovunque».
Così si spiega perché le prime grandi civiltà umane sono fiorite intorno ai deserti?
«Appunto, dall’Egitto alla Mesopotamia. Molto prima della scoperta del petrolio, i deserti custodivano ricchezze straordinarie, che hanno aiutato l’uomo a svilupparsi. Sono stati la culla della nostra civiltà. Io sostengo molte popolazioni native degli Stati Uniti, come gli indiani Papago, Mayo e Seri, perché custodiscono la cultura ancestrale agricola dell’America».
Il riscaldamento globale sta mettendo a rischio anche la sopravvivenza dei deserti?
«È un fenomeno che stiamo studiando. Non abbiamo ancora prove certe, ma i deserti sono molto legati agli oceani, e il loro riscaldamento li sta cambiando. Un’isola arida della California che monitoriamo era la meta preferita di alcuni gruppi di uccelli, per fare il nido. Ora l’acqua intorno si è scaldata, non trovano più cibo, e quindi vanno a stare nel molo container del porto di Los Angeles».
Invece di allarmarci per la desertificazione, in corso proprio in California, dovremmo proteggere i deserti?
«Certo. Perché sono pieni di vita e ricchezza, ma anche per la nostra salute. Contengono moltissima anidride carbonica, intrappolata nel carbonato di calcio che compone diverse rocce dei deserti: se li distruggiamo, la liberano nell’atmosfera, accelerando il riscaldamento globale. Meglio difenderli».
Paolo Mastrolilli (La Stampa)
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