Milano 31 Gennaio – La recente nomina alla guida della Rappresentanza Permanente all’Unione Europea di un esponente di governo estraneo ai ruoli della Farnesina è stata variamente commentata dai principali organi di informazione. Resta tuttavia l’impressione che un’analisi su una questione molto seria per la politica estera del nostro Paese e per la tutela del nostro interesse nazionale sia rimasta offuscata da troppo “gossip”. Il governo ha motivato la sua decisione con l’esigenza di assertività e autorevolezza a Bruxelles; lasciando filtrare insofferenza per la “dimestichezza” dei nostri diplomatici con gli ambienti della Commissione e degli altri principali partners europei.
Siamo tutti sorrisi a Teheran, che viola pesantemente i diritti umani e destabilizza attraverso i suoi “proxies” il Mediterraneo orientale, alimentando l’enorme ondata di migranti. Siamo comprensivi con Putin e mettiamo riserve alle sanzioni contro l’annessione della Crimea stigmatizzata dall’Assemblea Generale dell’Onu. Dimentichiamo che la presidente del Brasile, Roussef, ospita un estradando come Battisti che ci guardiamo bene dal rivendicare da almeno due anni. Ma a Palazzo Justus Lipsius tutti i delegati italiani sono tenuti a fare la faccia feroce. Perché qualcuno dovrebbe credere a una politica estera assertiva, quando anche lo fosse su alcuni dossiers brussellesi, se sono così frequenti le giravolte, i doppi standards, le visioni appannate dell’interesse nazionale? Come è stato autorevolmente spiegato ai media, si è reso opportuno un “cambio di passo”: mandiamo a Bruxelles un “peso massimo” che sia un segnale forte per tutti, Junker, Merkel, Tusk in primis ,e dimostri che non si deve più scherzare con l’Italia. Inoltre, hanno spiegato ad abundantiam alcune fonti governative, la nomina di un estraneo alla professione diplomatica, corrisponde a quanto già avviene in un Paese, gli Stati Uniti, che da sempre nomina come ambasciatori personalità che non fanno parte del corpo diplomatico. I successi ottenuti recentemente da Washington con Cuba, Iran, negoziato economico transpacifico -TPP- sarebbero ulteriori motivi di conforto nell’accreditare l’opzione dell’ “Ambasciatore politico“.
Purtroppo per i fautori di queste ardite ricostruzioni ex-post le cose stanno assai diversamente: per l’America, per l’Europa e per l’Italia. Anzitutto per il nostro Paese la scelta strategica di avere una carriera di professionisti che accedono al servizio diplomatico esclusivamente per concorso pubblico, dal grado iniziale, per poi continuare a formarsi attraverso esperienze e selezioni competitive prima di poter ottenere la responsabilità di un’Ambasciata, è stata sempre affermata sin dall’immediato Dopoguerra. Solo in quei primissimi anni i pochi vuoti lasciati dall’epurazione antifascista nella nostra diplomazia erano stati colmati da uomini che avevano contribuito alla Liberazione. Ma per sessant’anni,dai primi Trattati di Roma sino alla settimana scorsa, gli ambasciatori italiani sono sempre appartenuti alla diplomazia professionale. Se l’ansia di invertire la marcia per inventare qualcosa di inedito rappresentasse di per sé una formula vincente in politica estera, la frattura e la discontinuità -in questo caso sicuramente spettacolare – varrebbero forse qualcosa. Ma le correzioni di rotta nella politica estera di un grande Paese, sia negli obiettivi che per gli strumenti di cui essa si avvale, non possono mai rispondere a impulsi emotivi, improvvisazioni o “trovate” che magari scaldano qualche aficionado ma costano enormemente in credibilità, prova di coerenza e affidabilità.Diverse riforme della Farnesina hanno sempre visto confermata la correttezza di queste impostazioni.
Ma vorrei dire di più. Tutti i principali partners europei, anche i pochissimi che nei passati decenni hanno talvolta scelto per le loro rappresentanze a Bruxelles capi missione “politici”, sono da diversi anni in piena sintonia con la prassi del nostro paese. Non è affatto sorprendente. L’accelerata integrazione prodotta dal Trattato di Lisbona, la crescente complessità, diversificazione, impatto nazionale delle questioni negoziate ogni minuto a Bruxelles, richiedono specialisti sperimentati sull’insieme delle problematiche, delle procedure, del modo di trattare i loro interlocutori. È indispensabile parlare lo stesso idioma, avere dimestichezza con i meccanismi logici e il retroterra politico-culturale di chi sta di fronte. Non è un caso che nello stesso Servizio per l’Azione Esterna una quota ampia sia tratta dai servizi diplomatici dei 28 Stati membri. La grande qualità della nostra “diplomazia europea” ha fatto sì che non soltanto i molti governi succedutisi da oltre mezzo secolo abbiano sempre puntato su capi missione della Carriera; è anche avvenuto spesso che i Commissari, normalmente espressione del “livello politico” provenissero invece dai ruoli della Diplomazia italiana, in ragione della loro grande autorevolezza sulle materie europee. Quale meditata ragione può aver suggerito al Presidente del Consiglio uno strappo così macroscopico? Non si può pensare alla rottamazione fine a se stessa. Né a una antropologia di “gente nova”, come la chiama Galli Della Loggia nel suo editoriale dell’altro giorno, che dopo aver provato a imporre nuove rappresentazioni della realtà in politica interna, si proporrebbe ora di cambiare modalità e regole nelle relazioni internazionali. Collegare la “minirivoluzione” della nomina degli Ambasciatori ai problemi veramente di fondo che il governo incontra nella sua politica economica, nella lotta alla corruzione, nelle incomprensibili leggerezze nella gestione dei migranti, nella sottovalutazione delle minacce alla sicurezza interna ed estera, può essere un espediente allettante per spostare l’attenzione e assicurare che le responsabilità politiche nel nostro Paese restino sempre confinate in un Empireo sovraordinato, onnipotente e irraggiungibile. Il contrario, più o meno, di quella sana e invidiabile nozione di accountability su cui poggia la tanto citata esperienza statunitense, così diversa e così lontana.
Giulio Terzi di Sant’Agata (L’Intraprendente)
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