Cannibalizzazione digitale del lavoro, secondo Uniglobal

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Milano 10 Marzo – Avvicinandosi all’appuntamento della Conferenza di Roma di UniEurope, il segretario generale di UNI Global, Philip Jennings, ha fatto il punto sul quadro imposto dal sistema della digitalizzazione globale sul lavoro. Jennings, partecipando ai lavori del Forum economico Annuale di Davos, è partito dai dati comunicati durante l’evento. In sintesi estrema, 7 milioni di posti di lavoro destinati a sparire. Il discorso corre subito allo studio della Oxford University del 2013 (Frey C.B. e M.A. Osborne The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to Computerisation? Oxford Un. 17 settembre 2013, www.oxfordmartin.ox.ac.uk/downloads/academic/The_Future_of_Employment.pdf) che metteva ben 320 tipologie di lavoro su 700 negli Usa a rischio d’estinzione sotto la minaccia dell’automazione e prevedeva la sostituzione informatica per il 47 % del lavoro odierno. Il World Economic Forum ha evidenziato un fenomeno preciso, quello della cannibalizzazione digitale dei posti di lavoro. Mentre sono abbastanza precisi dati come gli investimenti sui Big Data e le perdite di posti di lavoro, appaiono scarsi, modesti e imprecisi i riferimenti ai nuovi posti di lavoro che la rivoluzione digitale dovrebbe creare. Anche nuove pubblicazioni come Reiventare l’impresa nell’era digitale del gruppo di studio Open Mind, sviluppato dal consorzio bancario spagnolo BBVA (https://www.bbvaopenmind.com/wp-content/uploads/2015/04/BBVA-OpenMind-book-Reinventing-the-Company-in-the-Digital-Age-business-innovation.pdf) confermano la tendenza e suggeriscono che per ogni 10 posti di lavoro persi ne viene creato solo uno. Quindi il primo dato della cannibalizzazione dei posti di lavoro svela la prossima estinzione di un enorme volume di tipologie di lavoratori. La previsione inoltre si colloca all’indomani della precedente perdita occupazionale di ben 60 milioni di posti di lavoro dovuta al grande crollo finanziario, un deficit di posti di lavoro che la ripresa non ha reintegrato. Per tornare agli standard mondiali occupazionali di metà anni 2000, allo stadio precrisi, ha ribadito Jennings in un’intervista video alla rivista economica svizzera Bilan, sarebbe necessario creare nuovi 60 milioni posti di lavoro all’anno nella prossima decade. Le previsioni invece parlano di un aumento della disoccupazione di 70 milioni di unità in dieci anni. Alla fine del periodo considerato, volatilità finanziaria e rivoluzione tecnologica, stando così le cose, faranno precipitare al deficit mondiale di quasi 700 milioni di posti di lavoro rispetto alla situazione precedente alla crisi finanziaria. Si tratta di un trend negativo onnipresente i cui effetti si faranno sentire nei villaggi africani come nel centro di Zurigo. E’ evidente che le narrazioni fantasmagoriche dei guru tecnologici sul futuro radioso indotto dal digitale non sono credibili. E’ vero però che la digitalizzazione libera l’umanità dalla necessità di impiego di molto tempo di lavoro per operazioni routinarie. Ancora di più ed oltre è anche in grado di espletare calcoli e ricerche massive inarrivabili anche per i più esperti. Cukier Kenneth (Big Data and the Future of Business, The Economist 30 giugno 2015, www.technologyreview.com/view/538916/big-data-and-the-future-of-business) ha elencato i casi di scoperte di machine learning grazie all’uso dei Big Data, per nuovi rilevatori di tumore al seno alla Stanford Univ.; per gli effetti collaterali di medicinali alla Micosoft research su un database di 82mila ricerche online; per la variante genetica della schizofrenia su 35mila casi (Esecutivo Presidente Usa maggio 2014 Big Data: Seizing Opportunities, Preserving Values www.whitehouse.gov/sites/default/files/docs/big_data_privacy_report_may_1_2014.pdf). La conclusione dell’autore sottolinea che Big data e macchine possono sostituire anche il lavoro di migliaia di scienziati, ricercatori e medici. Big Data e algoritmi sfidano i colletti bianchi lavoratori della conoscenza del XXI secolo nello stesso modo che l’automazione di fabbrica e la linea di assemblaggio ha eroso il lavoro operaio nel XIX e XX secolo. Nicola Strizzolo dell’Università di Udine ricorda che la cannibalizzazione digitale non si limita al lavoro più umile e modesto ma riguarda anche quello skillato e professionale. Non è più vero come sostenevano Brynjolfsson Erik e McAfee Andrew nel 2011 (Race Against The Machine: How the Digital Revolution is Accelerating Innovation, Driving Productivity, and Irreversibly Transforming Employment and the Economy) che il progresso concentrato sulle tecnologie informatiche avrebbe reso inutili le persone dalle competenze obsolete per le nuove modalità lavorative. Purtroppo rischia di mettere da parte anche le persone ben preparate. Questo è il secondo dato da tenere a mente. Strizzolo ripesca gli ammonimenti del sociologo Luciano Gallino, che nel ‘99 tratteggiava a tinte fosche il futuro vedendo nella prossima automazione la molla della definitiva crisi capitalistica: Con l’automazione applicata a se stessa, le macchine producono altre macchine per fare l’automazione, il processo di automazione raggiunge livelli altissimi e quindi non c’è più nessuna speranza o perlomeno si riducono di molto le speranze di trovare prima o poi un nuovo posto di lavoro nei settori che producono la tecnologia che ha eliminato il posto originario, il posto di partenza ( Disoccupazione tecnologica: quanta e quale perdita di posti di lavoro può essere attribuita alle nuove tecnologie informatiche, www.mediamente.rai.it/biblioteca/biblio.asp?id=153&tab=int). Sembra che, se all’effetto dell’automazione si aggiunga quello dei Big Data (Strizzolo Nicola, 2014, Capire i Big Data, www.agendadigitale.eu/smart-cities-communities/948_capire-i-big-data-tre-fronti-della-ricerca.htm), il rischio per il lavoro si faccia ineluttabile. In realtà con la digitalizzazione avanza anche un nuovo fenomeno, quello del rifiuto delle gerarchie di carriera e del lavoro subordinato a criteri di tempo e spazio. La collaborazione paritaria promossa dalla filosofia della rete che procede per realizzazione in autonomia di oggetti e conseguimenti di obiettivi, sta alla base dell’idea di smart work. E’, puntualizza, Jennings, la nuova folla dei lavoratori alla Uber, che concepiscono il lavoro come economia della condivisione. E’ condivisibile, il loro desiderio di lavorare in libertà per effettivi risultati, senza intermediazioni burocratiche e gerarchiche. Offre però il fianco ad una nuova generazione di imprenditori di deresponsabilizzarsi del tutto. Questi imprenditori assumono e controllano il lavoro prestato, come i loro predecessori; pretendono di licenziare in caso di fallimento, pagano solo la prestazione fornita ma soprattutto non assumono mai veramente. Nei fatti i lavoratori ai loro occhi diventano degli artigiani e piccoli imprenditori, (la ben nota in Italia popolazione delle partite Iva), su cui calano tutti gli aspetti negativi dell’essere lavoratore comandato ed imprenditore. Terzo dato, quindi, le condizioni del nuovo lavoro digitale così cannibalizzano anche l’idea stessa del lavoro subordinato, mettono in forse le basi stesse delle garanzie contrattuali. Qui secondo Jennings bisogna tutelare la voglia di intraprendere e di assumersi dei rischi dei lavoratori, a patto però che esista una protezione sociale che pemetta in caso di fallimento di non precipitare nella povertà più nera. Il sindacato mondiale ed europeo, pur davanti a questi drammatici cambiamenti, non ha intenzione di assumere un atteggiamento luddista, puramente distruttivo e ostile alla rivoluzione digitale. Conclusione C’è infatti un dato strutturale a favore dei lavoratori. E’ lo stesso lavoro che ha creato e crea condizioni e risultati della rivoluzione digitale. Al lavoro dunque spetta un fee, un dividendo, una partecipazione, un diritto d’autore su tutti i risparmi e tutte le sinergie permesse da automazione, cloud e digitale. Si tratta di una quota economica facilmente deducibile dai ricavi e dai risparmi del sistema finanziario e globale nel suo complesso. Infatti la digitalizzazione permette all’umanità di vivere meglio, lavorare di meno, contribuire con tutti i propri talenti alla vita dell’impresa e della comunità. A patto che i profitti del fenomeno non restino sempre solo da una parte sola. Non è detto che la rigidità stessa dell’idea contrattuale, mantenuta ferma nel tempo per timore di perderla, non faciliti il processo distruttivo delle garanzie mancando della flessibilità necessaria per adeguarsi da un lato alle nuove condizioni tecnologiche economiche ed all’altro lato ai desideri nuovi dei lavoratori. I contratti del futuro dovranno tenere conto di quanto l’eco-sistema digitale abbia fatto risparmiare e guadagnare in tempo di lavoro ed in sinergie e dovranno trasformare questo risultato non in disoccupazione ma in minor impegno di lavoro a parità di paga, se non incrementata. Non c’è altra via per permettere lo sviluppo della robotica e dell’automazione nella pace sociale. Al lavoro che rende possibile la trasformazione digitale, deve essere riconosciuto un suo dividendo continuo nel tempo.

Giuseppe Mele

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