Avvisate Renzi che neppure lui non ha vinto le elezioni

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Milano 23 Marzo – Nella narrazione di Matteo Renzi, il passato è oggetto di una rimozione totale. O meglio, è ridotto ad un indistinto, a “una notte nera in cui tutte le mucche sono nere”. Anzi rosse. L’uomo nuovo di Renzi non ha memoria, non la utilizza se non per evocare l’irrimediabile anacronismo di chi è venuto prima, per intimare ai temerari che pretendono di avanzare qualche obbiezione sgradevole di essere fuori tempo massimo. Dalla sua ha un vantaggio incolmabile. La rottura con la Prima Repubblica è stata così brusca, così radicale, da lasciare nella coscienza degli italiani la sensazione di essere usciti da un incubo che nessuno sembra disposto a rivivere, nemmeno attraverso il ricordo. In più, può contare sulla cesura che l’eclissi delle culture politiche del Dopoguerra ha segnato con il passato, e con il fastidio per la storia tipico di una società come quella italiana che ha smarrito progressivamente le tracce della propria identità.

Se qualcuno osa alzare il ditino per obbiettare che forse sarebbe utile riservare anche uno sguardo retrospettivo al vissuto dell’Italia, diviene immediatamente oggetto di scherno e si espone a una caricatura deformante. “Taci tu che…”. Prima è toccato a Pierluigi Bersani, reo di avere ricordato allo statista di Rignano che si trova al governo grazie ai voti presi dal “suo” Pd nel 2013. Da ultimo a Enrico Letta, colpevole di avere messo in discussione l’alleanza con una parte del centrodestra fuoriuscito, in diverse riprese, dal partito di Berlusconi e capitanato da Denis Verdini. E che, in modo neanche tanto allusivo, ha osservato come l’attuale equilibrio politico si regga sulla stessa teorizzazione della pratica del trasformismo. Renzi, che sta usando i giovani democratici comebersagli umani, di fronte a una platea di giovani promesse della politica, ha risposto con il solito sarcasmo: “Conosco un metodo per non avere Alfano o Verdini nella maggioranza: vincere le elezioni, al contrario di quello che abbiamo fatto nel 2013”. Oltretutto, ha ricordato, a quelli che gli rimproverano di non essere stato eletto, che il presidente del Consiglio è indicato dla Capo dello Stato. Tanto per completare la vendetta, ha finito sbeffeggiando il suo predecessore: nell’anno della presidenza Letta, il Parlamento, che grazie al suo impulso ha poi fatto meraviglie, allora “non ha fatto niente”.

Di notevole c’è che Renzi lo ammette: Verdini è parte della maggioranza. Pochi giorni prima, dopo la condanna in primo grado dell’ex coordinatore di FI, alcuni dei suoi, da Guerini a Rosato, si erano sbracciati per dire che, sì, qualche volta Verdini aveva sostenuto le proposte del governo. Che, sì, il gruppo di Ala aveva anche votato qualche volta la fiducia. Ma, sia chiaro, Verdini non sta nella maggioranza, avevano garantito. Ora invece ad ammetterlo è il premier stesso. Con il che si certifica definitivamente il ribaltamento del quadro politico uscito dal voto. E solo un’ennesima rimozione interessata può cancellare le differenze tra la situazione intervenuta dopo il voto e quella attuale. Nel 2013, il Pd si presentò agli elettori con un’alleanza di centrosinistra, di cui faceva parte anche Sel. La cosa può anche non piacere a Renzi –  e non solo a lui – ma quella fu la coalizione che gli elettori votarono e che fecero vincere sia pure di stretta misura. Poi venne l’accordo con Berlusconi – prima, molto prima del Patto del Nazareno – e la formazione di un governo di larghe intese, una più o meno “grosse koalition”, con dentro democratici, forzisti e montiani. Sostenuto da parti diverse alla luce del sole, ciascuna portatrice del punto di vista sostenuto davanti agli elettori. Una soluzione forzata, frutto di un’emergenza creata da una legge elettorale strumentale e improvvida. Fino allo strappo di Berlusconi.

Poi venne la confusione politica e un governo, quello guidato da Renzi, che strutturalmente, per la natura dei rapporti di forze in Parlamento e per la debolezza numerica della sua maggioranza, ha nel trasformismo, nel mutamento delle ragioni politiche di tutti rispetto al mandato degli elettori, la sostanza del suo operare. Con l’aggravante, che Letta ha buttato lì e a cui Renzi neppure ha sentito il bisogno di replicare, che tutti ammisero, nel 2013, che il governo formatosi allora rispondeva alla logica di un’emergenza politica, alla necessità di risolvere il rebus consegnato dal voto alle forze politiche, con l’inattesa e violenta “tripolazizzazione” del Parlamento e con l’equilibrio contraddittorio tra la composizione della Camera, drogata da un premio di maggioranza giudicato incostituzionale dalla Corte e un Senato in cui nessuno aveva i voti necessari a governare. Renzi, invece, senza nessun passaggio elettorale – e questo è un dato inoppugnabile – e senza nemmeno un confronto parlamentare, ha trasformato una soluzione precaria e anomala per una democrazia basata sull’alternanza in un governo con un mandato forte, al punto da mettere mano ad un’ampia riforma della Costituzione e a una legge elettorale ipermaggioritaria.

Intanto la minoranza del Pd si consuma nel velleitarismo di convegni e di dichiarazioni che esprimono la convinzione ingenua, velleitaria, che dal renzismo si possa uscire da sinistra e si infila in battaglie sbagliate come quelle sul referendum anti-trivelle e sulla stepchild adoption. E il centrodestra, a dimostrazione della sua avvenuta consunzione e della sua irrilevanza politica, si è del tutto ammutolito. Come se, dopo le denunce vibranti del passato, sui ribaltoni e sui colpi di Stato, oggi non ci fosse più niente da dire. Sembra di vivere la favola di “Pierino e il lupo”. Dove le pecore, ovviamente, siamo tutti noi.

Emilio Russo (L’Intraprendente)

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