Milano 3 Aprile – A dar retta al buon Matteo sulle dimissioni del ministro Guidi, viene a mente l’ampia teorica di Elie Wiesel sull’«esilio della parola». Ormai, infatti, il significato delle parole viene distorto, plasmato e piegato a beneficio di propaganda. Così, ieri, dagli Stati Uniti, il premier ha ribadito che, in quella telefonata dell’ex ministro dello Sviluppo al suo compagno, in cui lo rassicurava circa l’approvazione di un emendamento concernente il giacimento di Tempa Rossa sul quale lui aveva interessi economici, c’era un «elemento di opportunità politica» che poi ha innescato il passo delle dimissioni. Vero. Sacrosanto. Solo che l’opportunità politica ha maglie molto più strette della giustizia. Perché di fronte all’opportunità politica il garantismo è meno rigido, non conosce prescrizioni, non è sottoposto a termini e non si basa sul dovere morale di attenersi a pronunciamenti di una Corte, siano essi graditi o meno. L’opportunità politica, infatti, si basa sulla capacità di valutare se e quando diventa difficile distinguere il perseguimento di un fine pubblico da uno personale nell’espletamento di un ruolo istituzionale. E, soprattutto, l’opportunità politica, e in questo è uguale alla giustizia, si applica universalmente. Altrimenti non vale. Perciò, seguendo il criterio, ci sono molte cose che non vanno. Stona l’intreccio politico-familiare intorno alla vicenda di Banca Etruria. Stonano i nuclei familiari (pensiamo ai fratelli Manzione) assorbiti nel contesto di governo. C’è qualcosa che stona, ancora, di fronte alla militarizzazione delle caselle di sottogoverno o persino della diplomazia, basti pensare a come l’ex vice ministro Calenda è stato cooptato nel ruolo di ambasciatore in Ue calpestando consuetudini e gerarchie. Per non parlare dell’ipotesi, poi congelata a seguito di molte proteste, di nominare Marco Carrai, sodale fidato del Capo, a capo di una struttura per la cybersecurity. Tutto ciò a dimostrazione che l’«opportunità» è una bella e impegnativa parola. Se usata male ti torna indietro come un boomerang.
Gian Marco Chiocci (Il Tempo)
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