Milano 6 Aprile – Nel Gennaio 2013, il Mali, un paese di 18 milioni di abitanti, considerato un modello di democrazia, che ha mostrato in dieci anni una crescita economica del 7%, è crollato di fronte all’offensiva di poche centinaia di jihadisti. L’intervento urgente dell’esercito francese evitò la conquista di Bamako da parte delle forze armate dei Fratelli Musulmani (terroristi) e la creazione di un califfato simile a quello che si è stabilito in Siria e Iraq. Questo episodio rivela, nella sua piccolezza, una situazione preoccupante.
L’irredentismo Tuareg sicuramente è sempre stato un problema e si sa, in Mali, dopo l’indipendenza, vi sono state varie crisi e gli accordi di pace tra i governi e i rappresentanti delle popolazioni nordiche sono sempre stati fragili. La situazione è peggiorata con l’emergere di gruppi terroristici islamici come il GIA, sempre a guida Fratelli Musulmani, ma annientati dall’esercito algerino.
Le minacce sul Ciad, al contrario, sono ad un livello più basso. Questo paese ha subito in passato diverse invasioni, compresi quelli della Libia di Gheddafi che ha preso il controllo della striscia a nord di Aozou. In questa area le ribellioni tuareg e Toubou sono antiche ma si sono acutizzate negli ultimi anni e questi gruppi mantengono un’instabilità permanente in tutta la zona di confine con la Libia. Il Ciad orientale, invece, è costantemente in stato d’allarme costantemente in guardia per le sempre più numerose incursioni di terroristi islamici sponsorizzate dal regime sudanese. Nel 2008, giusto per ricordare, un gruppo di jihadisti sono riusciti ad arrivare alle porte del palazzo presidenziale di N’Djamena e furono respinti solo per un soffio.
Il Chad sud-orientale è alle prese con i gruppi jihadisti Seleka dalla Repubblica Centrafricana che insieme al gruppo Boko Haram costituiscono una minaccia esistenziale per il paese.
Dal Niger, dove hanno costituito una seria minaccia per le miniere di uranio di Arlit, come dal Mali, gruppi jihadisti respinti dall’esercito francese si sono ritirati nel Fezzan libico. A est del Niger, la regione di Djado, è una zona senza legge in cui si confrontano le milizie per il controllo delle miniere d’oro, mentre ad ovest le continue incursioni jihadiste provenienti dalla regione maliana di Kidal, minacciano l’intera regione di Tahoua.
Infine, il rischio maggiore per il Niger è, come per la Nigeria, costituito da Boko Haram che controlla efficacemente un’area delle dimensioni del Belgio. Il gruppo terroristico Boko Haram è stato, nel 2015, responsabile di oltre 6000 vittime nonostante gli sforzi dell’esercito di coalizione africana che non è immune dalla corruzione. Si prevede però un forte indebolimento di Boko Haram nel 2016 considerato che le Forze Armate della Nigeria, del Niger e del Camerun, supportate dall’esercito francese, stanno conducendo contro di esso una lotta senza quartiere. Ma in questo caso, i sostenitori di Boko Haram potrebbero penetrare in Niger e sarebbero perfettamente in grado di condurre una guerra asimmetrica di lunga durata, che può estendersi a tutto il paese gettandolo nel caos come nel nord-est della Nigeria.
A queste minacce esterne già preoccupanti vanno ad aggiungersi altri fattori interni di fragilità ancora più inquietanti che sono simili a quelli trovati in paesi lontani dal Sahel ma geograficamente e culturalmente simili, in particolare in Afghanistan.
Il primo fattore di fragilità interna di tutto il Sahel, e probabilmente la più grave, è la demografia fuori controllo. I paesi del Sahel non hanno iniziato mai iniziato una politica demografica, a differenza di tanti altri paesi del mondo, con tassi di crescita della popolazione che in alcuni paesi raggiungerà più del 4% l’anno e la popolazione, secondo le stime, raddoppierà ogni 18/20 anni.
Il Niger che ha avuto 3 milioni di abitanti nel 1960 sarà di almeno 42 milioni nei prossimi 20 anni. Se il tasso di fertilità rimane al livello che è stato per 30 anni, la sua popolazione sarà di 89 milioni nel 2050 in un paese dove solo l’8% della superficie è adatta per l’agricoltura.
Il Niger oggi sta lottando per sfamare i suoi 20 milioni di abitanti, come potrà alimentarne altri 69 milioni in 20 anni? In un modo o nell’altro, i principali eventi che si verificheranno nel paese nei prossimi decenni saranno una tragedia, sempre che non avvenga una rivoluzione agricola e tecnologica, ma basandoci sulle tendenze attuali, questo paese è chiaramente “messo al muro”. E non è l’unico nella regione. Infatti l’empasse agricola nel Sahel è simile a quella dell’Afghanistan: in entrambi i casi, a causa della difficoltà dettate dalle condizioni naturali, ma anche la mancanza di politiche e di investimenti pubblici e privati adeguati non si può prevedere un vero sviluppo economico. Anche la situazione nel Sahel è destinata a peggiorare sotto l’impatto del riscaldamento globale e la crescente instabilità politica ed economica.
Non è quindi sorprendente la piaga della povertà rurale, con l’accesso all’acqua limitato al 50% e del tasso di elettrificazione rurale di circa il 0,2% . In Mali, la mappa della distribuzione della povertà mostra che le regioni più povere (Mopti e Sikasso) hanno un buon potenziale agricolo, e che la regione di Kayes, che esporta la sua forza lavoro in Francia, potrebbe diventare un’area trainante per l’economia del paese.
Come in Afghanistan, senza sbocco sul mare, la combinazione di un’agricoltura stagnante e la mancanza di industrie manifatturiere hanno portato il Sahel ad un livello di disoccupazione drammatica. In aggiunta a questo, come in Afghanistan, le fratture etniche, la diffusione delle armi, il vuoto di sicurezza causata dalla immensa debolezza dei governi e dell’economia, favoriscono l’emergere di sistemi mafiosi: in Afghanistan, questo sistema, andrà a sostituire uno stato in gran parte assente per fornire funzioni di base come la giustizia, la polizia e l’azione sociale locale.
L’ordine di questa sorta di mafia si basa sull’ideologia totalitaria che è l’Islam radicale. Il Wahabismo non è un fenomeno nuovo nel Sahel. Per decenni le sue basi del Golfo hanno finanziato moschee e scuole coraniche e queste moschee e madrasse localizzate prevalentemente in Pakistan, forniscono i contingenti talebani oggi dilaganti sia in Afghanistan che nello stesso Pakistan.
L’Islam radicale sostituisce nelle aree musulmane quella più tranquilla e tradizionale corrente sufi dell’Islam, esso offre un’ideologia seducente sulla base di un ritorno alla presunta purezza delle tradizioni medievali divenendo l’ideologia di diversi gruppi jihadisti locali che associano il traffico ed il racket alle azioni caritative e di proselitismo religioso, offrendo così l’unica prospettiva realistica di inclusione sociale e il successo economico dei giovani disorientati.
Il crollo della Libia, dove ora si sta estendendo Daesh offre ai gruppi aree di radicamento e di rifornimento inespugnabili. Si sono formati ormai dei legami molto forti tra il franchisee libico dell’Isis e le organizzazioni wahabite del Sahel per reclutare giovani saheliani e gruppi jihadisti nel nord Sahel.
Le due potenze regionali che potrebbero intervenire in Libia sono assenti: l’Egitto è coinvolto nella lotta contro i Fratelli Musulmani e i gruppi jihadisti finanziati da Hamas nel Sinai. La classe dirigente algerina invece è alle prese con una lotta intestina per la successione del presidente Bouteflika che sta portando il paese nord africano verso un disastro economico. Infine c’è la Tunisia che è ormai direttamente minacciata dal jihadismo poichè la sua democrazia costituisce un fenomeno inaccettabile per l’Islam radicale.
Un’esplosione della migrazione regionale Sahel potrebbe causare gravi crisi e destabilizzare le tessere del domino che compongono i paesi costieri dell’Africa occidentale come avvenne con la crisi ivoriana tra 1997/2011 dove la forte crescita economica, nei primi anni del 2000, grazie alla crescita della richiesta delle materie prime e la mancanza di posti di lavoro contro un’esplosione demografica hanno portato la Costa d’Avorio alla guerra civile. Pertanto un afflusso massiccio di migranti dal Sahel potrebbe esacerbare le tensioni politiche che hanno dilaniato la Costa d’Avorio dopo la morte del presidente Houphouet Boigny e periodicamente agitano la Nigeria.
Le questioni geopolitiche nel Sahel non così significativa solo a livello regionale ma anche per la l’Europa. Non siamo più di fronte a scosse minori che si verificano in Stati senza importanza dove un battaglione di fanteria potrebbe riportare l’ordine in pochi giorni. Siamo di fronte al rischio di una vera e propria eslosione di una zona in cui attualmente vivono circa 100 milioni di persone, che saranno 150 milioni nel 2026; un’ esplosione della regione popolata quattro volte la popolazione della Siria non sarebbe senza conseguenze per i tassi di migrazione per il nostro paese e per l’Europa. La Francia è impegnatain prima linea nel Sahel, con un’azione militare di cui non si vedono tangibili risultati: l’operazione Serval con cui Parigi cerca di proteggere una vasta area che copre cinque paesi, corrispondente ad una superficie di circa 10 volte quella della Francia con un contingente di 3500 uomini:assurdo no?
L’urgenza, in questo momento, è quella di consolidare gli elementi di fragilità interne dei paesi del Sahel per consentire loro di affrontare le minacce interne ed esterne. Ciò implica azioni prioritarie per la creazione di posti di lavoro perché è la mancanza di lavoro che porta le popolazioni dell’area alla mancanza di qualsiasi alternativa e quindi di aderire in massa, così come i giovani afghani, ai gruppi jihadisti che offrono stipendi interessanti e, quindi, le uniche prospettive di un futuro, seppur incerto.
L’unica opzione a breve termine è quello di lanciare un ambizioso risanamento dei terreni, lanciare programmi di sviluppo rurale basati su massicci investimenti in strade rurali, piccola irrigazione, l’elettrificazione, l’intensificazione agricola, pastorizia di supporto, ecc. A queste azioni si devono aggiungere i programmi di politica demografica: il tasso di fertilità è di circa 7,5 figli per donna nel Sahel, pertanto, un progetto valido, sarebbe portare gradualmente quel tasso entro il 2,5.
Una seconda priorità potrebbe essere quella di consolidare il più velocemente possibile, se non addirittura ricostruire, i dispositivi sovrani dei paesi del Sahel: esercito, polizia, apparato giudiziario, amministrazione del territorio, etc., perché solo gli apparati governativi sovrani sono in grado di stabilizzare questi Paesi. I rimedi per questo scopo, apportati dalle forze militari straniere possono infatti portare alla situazione di stallo in cui le forze occidentali si sono trovate in Afghanistan, dove i liberatori sono stati rapidamente percepiti come occupanti.
L’esperienza occidentale, in Afghanistan come in Iraq, dovrebbe insegnare che nelle missioni di esportazione della democrazia andrebbero rafforzati i dispositivi sovrani e sulla base di programmi di donazione di attrezzature tecnologiche ed alla formazione al loro utilizzo. L’Occidente dovrebbe aver imparato che per ricostruire le istituzioni va introdotto il principio del merito nella selezione dei quadri e delle prestazioni nella loro promozione evitando di ottenere istituzioni con quadri clientelari. Il caso del esercito iracheno è un tipico esempio di cosa non fare, mentre abbiamo notevoli esempi di successo nella ricostruzione istituzionale in Afghanistan dove vi era raro interesse del presidente Karzai di avere un impatto reale sulla sua popolazione ma ha successivamente capito che per mettere ordine nelle istituzioni si devono finanziare, anche temporaneamente, le attività economiche al fine di migliorare l’economia ed il funzionamento statale.
Ora l’Italia, se non vorrà essere travolta e distrutta da un’onda migratoria che non avrà precedenti, deve obbligatoriamente prendere il controllo delle risorse significative che paga per le agenzie di aiuto internazionali. Questo recupero di controllo non richiede una riduzione dei nostri contributi a questi organismi. Richiede l’abile politica seguita dal Regno Unito, che si basa sul cosiddetto “multi-bi”: questo approccio presuppone che le risorse bilaterali non devono essere utilizzati per finanziare progetti di piccole dimensioni, senza impatto, ma di mobilitare notevoli risorse e questo per gli obiettivi multilaterali e termini stabiliti dal donatore bilaterale, in questo caso l’Italia.
Gli strumenti per controllare questo recupero sono vari, ma i più importanti sono i “ fondi fiduciari dedicati” che corrispondono ai conti con cui i donatori devono accettare di pagare una quota delle loro risorse e di affidare agli organi di gestione una governance adeguata. Questa formula consentirebbe all’Europa, che dovrebbe svolgere un ruolo chiave in questi casi, di avere potere decisionale su somme considerevoli.
Tale contributo equivalente di questi fondi non può essere fatto senza difficoltà e richiede la negoziazione. Questi negoziati dovrebbero essere finalizzati ad aumentare ogni anno da istituzioni multilaterali ed europee almeno un miliardo di euro per il Sahel, che dovrebbe essere diviso in due fondi: uno per il finanziamento di grandi programmi di sviluppo rurale, tra cui azioni di pianificazione familiare, l’altro per la riqualificazione e la partecipazione della sicurezza degli stati del Sahel.
In un contesto in cui la minaccia di Daesh in Libia è probabilmente il principale pericolo negli equilibri geopolitici, non possiamo più continuare ad assistere questi paesi del Sahel con una politica basata su buoni sentimenti ed emozioni. Ora abbiamo bisogno di costruire, su un’analisi geopolitica fredda, un progetto per evitare la destabilizzazione della regione sub sahariana.
Ma fino a che punto possiamo fidarci del governo Renzi? Si sa che il terrorismo islamico si combatte tagliandone le risorse sia economiche che logistiche oltre a rafforzare le proprie identità culturali e nazionali e sappiamo che il governo italiano in questo momento va dalla parte opposta.
Per sconfiggere l’Isis, ed è dimostrato, serve tagliare le sue vie di rifornimento di denaro: non è un caso che Putin abbia bombardato le colonne di autocisterne di greggio che il Califfato esportava clandestinamente in Turchia con la benedizione di Erdogan, dimostrando al mondo che la Turchia era, ed è, complice dell’Isis, dimostrando che la Turchia paventava un’offensiva contro l’Isis che in realtà non c’è mai stata e la politica estera di Renzi, in questo momento da cosa differisce rispetto a quella turca? Guardiamo bene: Renzi annuncia un’azione armata contro l’Isis in Libia, ma ancora non è decollato nessun bombardiere. Al contrario, come spiega il Corriere della Sera in suo reportage di alcuni giorni fa, quattro petroliere, intercettate da Israele, incrociano nel Mediterraneo tra la Sicilia e la Libia. Prima di arrivare nel porto libico di Zawara, l’equipaggio spegne volontariamente il trasmettitore: Israele sospetta che quella petroliera imbarchi illegalmente petrolio in Libia. Dopo alcuni giorni la petroliera riaccende il trasmettitore al largo di Malta dove viene raggiunta da un’altra petroliera che ne riceve il petrolio imbarcato precedentemente e che ha la missione di scaricarlo presso il porto di Augusta, in Sicilia. Questo giochetto lo fanno in totale quattro petroliere, è illegale e non è strano che con tutte le navi della Guardia Costiera e della Marina Militare Italiana che incrociano nel Mediterraneo a sud della Sicilia non abbiano mai intercettato queste petroliere?
Da dove arriva quel petrolio? Perché viene caricato illegalmente? Perché gli equipaggi di quelle petroliere spengono sempre i trasmettitori quando si “incontrano” in alto mare o quando stanno per approdare in Libia? Ma a Palazzo Chigi siede ancora Renzi o è stato sostituito da Erdogan? Oppure, più semplicemente, chi va con lo zoppo impara davvero a zoppicare?
Impiegato presso una nota multinazionale americana, ha avuto varie esperienze di dirigenza sia in campo professionale che in campo politico.
Scrive per Milanopost ed altre testate, soffermandosi soprattutto su Israele, Medio Oriente, Africa sahariana e subsahariana. Giornalista Freelance scrive più per passione che per professione.