Milano 1 Maggio – Gentile Direttore,
ho venticinque anni e oggi è la festa del primo maggio. Però, dicono in giro che “quest’anno non è festa” perché, sfiga, cade di domenica. Dicono in giro che quest’anno non è festa perché passa il ‘ciclone Medea’ quindi piogge su tutta la penisola.
Ci dicono, però, che è una festa storica: la commemorazione di tante vittorie per i diritti dei lavoratori, il ricordo di conquiste pagate a caro prezzo. E, anche, che è la celebrazione solenne del valore del Lavoro come fondamento non solo della nostra Repubblica, ma anche della dignità umana: insomma, della nostra identità storico-sociale e personale, cioè i due aspetti principali dell’essere Uomo.
Ecco, direttore, allora io mi chiedo perché, con tutta questa narrazione ufficiale (e bella, e giusta, e nobile), all’università, al bar, per strada, adesso “non è festa”. La spiegazione di comodo c’è: è che le nuove generazioni non sono più capaci di grandi pensieri, di grandi sentimenti collettivi. Non si infuocano più per nessuna battaglia, perché non sanno neanche cosa sono. Non hanno dovuto lottare per niente. Vivono un progressivo crollo di valori: sono passivi, apatici e così via.
E qui, perdoni la franchezza, impazzisco. Siamo i giovani più informati, più internazionali, più istruiti di sempre. Siamo dinamici, col pensiero più libero e più vivace. Eppure è un progresso apparente, finto: siamo ancora alle prese con un Paese che, pur santificando la festa, non ha rispetto e considerazione del lavoro. Quando prevede nel suo sistema stage lunghissimi e gratis, senza neanche un rimborso spese (e quindi si paga per lavorare…) perché “fa curriculum”, periodi di prova infiniti, contratti per personale usa e getta, paghe da fame, in nero, orari folli – quando succede così, questo Paese non solo non rispetta i lavoratori. Non rispetta il lavoro. È una piaga sociale, contro cui ci scontriamo ogni giorno. Le battaglie le stiamo vivendo eccome: chi ragiona ancora con il mito delle lotte in piazza, non sa che queste hanno solo cambiato forma.
Disoccupazione dilagante, e condizioni di lavoro irrispettose per i giovani: è talmente un cancro diffuso che pare che dovremo lavorare almeno fino ai 75 anni, per ottenere una pensione decente. Ma non è esattamente come una volta – salari bassissimi, orari indecenti, lavoro fino a vecchiaia inoltrata (e pure le morti sul lavoro, ancora un numero altissimo)? Cos’è cambiato, in sostanza ? Non è sempre sfruttamento? Cosa dovremmo festeggiare, per cosa ci dovremmo inorgoglire?
Per me, rimane una giusta commemorazione storica, per persone che sono morte per la causa. Bene, giusto: con molta amarezza però, credo che si sia andati ben poco avanti. Non è festa, per noi. E oggi piove pure.
Lettera firmata
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