Milano 2 Maggio – Non poteva che trovarsi ai piedi del Pasquino la seguente ode.
“Non t’aspettare scherzi, sorrisi e gioiosi sgambetti, se c’è Giochetti. Come potrebbe? Ha la giacca lisa, i gomiti sdruciti, la guancia incavata, la pelle gialla, l’incarnato cereo. Sembra il fratello della Lulù dai piedi e denti blu di Petrolini e Fabrizi. Come lo vedi, non lo frequenti, lo capisci subito il Giochetti. Mascherato di doppie lenti e d’occhi sporgenti, s’accanisce, falsamente umile – Lontano gli occhi plizzz – solo perché non vuole svelare subito quanto si puzzi di fame. Come l’ombra della lonza, che puranco lupa e leone fuggono, l’accompagna l’aria di carestia, lo precede una bandiera mortuaria, di miasmosa fame, ovviamente quelli altrui. Non inganni la fame usata a sproposito in politica. Giochetti è ombra egli stesso, di uomo, di cittadino e di politico. Invisibile spettro, senza una conoscenza, una preferenza, una scelta finì nei listini elettorali, bianco come uno straccio per confondervisi e ne uscì dallo sportello posteriore, eletto. Gli scranni degli onorevoli si fecero buca allo spavento d’accattallo. Per natura tersitaio, dall’inizio sapeva d’essere destinato all’espulsione, alla cacciata, al rifiuto, all’esilio catilinario ma non dignitoso. E contronatura brigò contro la sua specie di lonza profittando di un ‘epoca oscenamente eccitata dall’impuro. Cercò e trovò salvezza nella greppia – direte voi- la solita greppia?-, sì ovvio la solita greppia-, quella della moglie sprecona della Palombelli. La greppia delle greppie che a forza di migliaia e migliaia di miliardi svirilizzò i comunisti e decristianizzò definitivamente i democristi. Quella scatolotta pestifera, rivestita di lamerino dorato, che già lasciò nel mondo libere di terrorizzare tante maledizioni, che liberò dal calicesso di Pandora tutte le Poggiani, Mogherini, Madia ed i Menichini. Pulcino nero, maledetto dagli stessi jettatori, in quella mala schiera c’era anche lui, Giochetti, sopra la bici niente, ad inseguire sopra il motorino niente. Il cupo dispiacione, stava fisso di dietro, fermo, con l’incarico di illuminare meglio il bel piacione, oltre a fare fotocopie e fax e recuperare tramezzini. Memorabili i lamenti che a guisa di ventriloquo, sapeva trarre dal ventre, fino a strappare nelle sale rosse ai pietosi e scocciati viggili, la merenda prandiale. Anche in quel periodo di bengodi, godeva il braccino corto, non del risparmio, ma dell’impoverire i già poveri.
Stava, per padrone ricevuto, tra le margherite che lo volevano sempre lontano, spaventate dal’alito guasto di carie curate di risulta negli ospedali militari e dalla poca igiene. Tutte cose invece che in Torargentina piacevano. Lì la malignità della smorfia di fattura poteva passare da pietà per i diritti umani. Il Mago Marco, trovandolo dell’altezza che gli competeva, l’avrebbe introdotto nel transnazionale, nel transpartitico, nel transtesseramento. Gli anni passavano per tutti e Marcomago soprassedette, non marchiando alla radice l’infame del segno di futuro segretario. Giochetti ne imparò però di giochetti, di burle regolamentatorie e di sberleffi legislativi ma restò un mezzoradicale incompiuto. Era d’altronde già un mezzodc, un mezzo ambientalista, un mezzo liberale, un mezzo garantista, un mezzo giudiziale. Che andava per tramezzi, con tutti i mezzi, facendo a mezzo, senza fine e fini. Imparò a diggiunare per darsi un contegno. Ripristinò le burle per ostruire il parlamento di parole a vuoto. Esaltò, protesse e scatenò gli aggressori del Parlamento che sulle sue porte avrebbero ripristinato i fasti del linciaggio dei ministri dei tempi di Pio IX. Poi, quando i nuovi padroni arrivarono al potere, volle mostrare la sua fedele capacità. La lonza sapeva fingere di ruggire come un leone e di saltare come un canguro. Reazionario quant’era stato libertario, mise il morso agli oppositori e fece loro guardia come un soldato boemo dai baffi di sego con i prigionieri irridenti. Gli vengono bene al Giochetti questi giochetti. Nelle aule polverose ne ha fregati di colleghi con carta perde carta vince, incluso il pokeraro Adinolfi. Ed ora Giochetti ride nell’animo nascosto sotto la piega amara e sdegnosa delle mucose che vorrebbero mostrare intelligenza. Ride della caduta della corrente gay dei demmocratici romani. Tant’ha fatto che il Fiorentino ha visto – o ha voluto vedere- una lupa nella lonza. L’ha candidato a capoccia de Roma. Lui, Giochetti, ha fatto di tutto per un bel travestimento. Romani, attenti a non cadere nella trappola della femmina senza mammelle, del pelo ispido non accogliente, del ventre occluso al parto. I politici arrubbano per godere, istinto riprovevole ma umano. Il mezzopolitico istintivamente vi precipiterà nella fame poiché la sua gioia è giocare con le sue vittime. Niente giochetti. “
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Giuseppe Mele
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