Milano 16 Maggio – Riscoprire Milano è anche riguardare l’eleganza austera della Milano che amiamo, con le sue architetture, la sua storia, la sua anima. E’ una boccata di aria pulita, un ripercorrere la memoria di ciò che eravamo. E’ un tuffo nella Bellezza che gli impegni quotidiani ci fanno dimenticare. Urbanfile propone oggi l’eleganza del Cinquecento in zona Missori in un sintetico e piacevolissimo articolo che riportiamo: “Nel periodo napoleonico si chiamava Via dell’Uguaglianza, l’antica Contrada dei Nobili che ospita gli Sforza, Francesco II, i Cicogna, la famiglia Bentivoglio e i marchesi Caravaggio. Le carrozze imboccavano a fatica l’angusta via, soprannominata dal popolo milanese “la stretta del Malcantone”. Poi, dopo il 1848 venne ribattezzata “Via dell’Unione”, simbolico augurio di un’Italia libera, una e indipendente, ma anche perché univa via Torino con Corso di Porta Romana, prima che venisse aperta via Mazzini. Tanti nomi per questo scorcio di Milano che custodisce tanti ricordi, specialmente in Palazzo Erba Odescalchi, oggi sede della II circoscrizione del Corpo di Guardie di Pubblica Sicurezzae di un museo anticrimine. Nella via si trovava anche l’Hospitium Falconis, l’Albergo del Falcone, già xenodochio di Ansperto sulla Via Falcone. Rimaneggiato nel Quattrocento, il cortiletto interno con loggia e scala si trova oggi, ricostruito dopo i bombardamenti, appoggiato ad un muro e visibile scendendo lo scivolo del n. 3 di Via Unione.
Il palazzo Erba Odescalchi si presenta in una veste essenzialmente cinquecentesca, ma i frequenti cambiamenti di proprietà avvenuti nel XIX e XX secolo hanno completamente alterato gli ambienti interni. Il giardino, oggi completamente sparito, era noto per i giochi d’acqua. La facciata è caratterizzata da 12 busti di imperatori romani posti nei timpani spezzati delle finestre al primo piano. Nonostante l’angustia della via si riesce a percepire imponenza alla facciata e in particolare del portale d’ingresso. Il bellissimo portale d’ingresso in pietra, disegnato da Pellegrino Tibaldi, è decentrato confronto all’ampiezza della facciata.
Entriamo nella corte cinquecentesca, sempre disegnata da Pellegrino Tibaldi, dove il porticato è segnato da cinque arcate, sorrette da solide colonne doriche di granito. Al piano nobile le finestre sono orgogliosamente sormontate da busti femminili fra i timpani spezzati: sono le spose dei cesari che campeggiano in facciata. Lo spazio architettonico si chiude in alto con una cornice di greche e di medaglioni e nella sua imponenza prelude alla grande esuberanza del barocco.
Il palazzo fu fatto ricostruire e ampliato dai Cusani, un’antica famiglia milanese, che acquistarono un vecchio edificio gotico probabilmente posseduto da Barnabò Visconti, modificandone l’architettura. I lavori iniziarono attorno al 1570, e furono affidati e diretti da Pellegrino Tibaldi come abbiamo potuto notare. Nel settecento passò al cardinale Benedetto Erba Odescalchi, a quel tempo arcivescovo di Milano, vi passò i suoi ultimi giorni di vita e ne lasciò in eredità il nome. Benché il palazzo non abbia subito gravi danni nei bombardamenti della seconda guerra mondiale, che invece hanno distrutto i palazzi attorno, esso è stato più volte rimaneggiato e ristrutturato, perdendo buona parte del suo patrimonio interno.
In fondo alla corte si trova una particolare scala elicoidale, sovrastata da una cupola-lucernario, tutta decorata di stucchi e fregi, molto particolare nel contesto milanese e vera chicca del palazzo.
Nella facciata, sono stati esposti ritrovamenti del palazzo gotico precedente, così come per il soffitto dell’androne, che testimonia che il palazzo fu costruito su un’architettura preesistente più antica.
Nel palazzo a fianco, l’ora demolito Palazzo Ducale, abitò Ippolita Bentivoglio, figlia naturale di Ludovico il Moro e raffigurata dal Bernardo Luini negli affreschi della chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore.
Speriamo in un restauro del palazzo, che ne avrebbe un gran bisogno. Magari anche una sistemata più decente all’arredo urbano, con parigine e selciato in pavé.”
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