Milano 4 Giugno – Ci sarebbero le elezioni per eleggere i sindaci di importanti città, signora mia, sebbene il presidente del Consiglio da settimane s’affanni come non mai a inculcarci le ragioni del Sì a un referendum che si vota tra quattro mesi. Forse non è un caso, signora mia, forse a pensar male si fa peccato ma spesso ci s’indovina, vecchio precetto di purissima scuola democristiana ancora utilissimo per interpretare le movenze neodemocristiane di un democristiano 2.0 come Renzi. Forse, la suprema astuzia del nostro consiste nella rimozione, nell’espellere dal dibattito il vero sugo politico del voto di domenica e dei relativi ballottaggi, che nientemeno suona: quale futuro per il Paese. Una condanna ventennale al renzismo, come unica possibilità furbetta e gattoparda di governo, o la (ri)comparsa di un’alternativa al medesimo, competitiva e potenzialmente maggioritaria, quindi il ripristino in Italia dell’unica riforma epocale che era riuscita al berlusconismo , il bipolarismo dell’alternanzaproprio delle liberaldemocrazie avanzate. Per essere più prosaici, ma è la stessa questione vista nei numeri dell’urna: quale modello di centrodestra. Perché quella, è la gamba mancante, o quantomeno oggi scoordinata, che rende possibile qualcosa come il Partito della Nazione, la cui unica virtù vendibile consiste nella sua esclusività. A meno che qualcuno creda che le scalmane grilline possano mai condensarsi in un progetto di Paese, o che una destra lepenista, iperidentitaria e tardonazionalista possa mai raccogliere il consenso dei settori produttivi. Noi non lo crediamo, e non ce lo auguriamo neppure, perché la Cosa nera vagheggiata da Salvini-Meloni (meglio, dal primo, la seconda va a rimorchio e si gioca la solita partita tutta interna al Raccordo Anulare), a fianco di una sana consapevolezza in tema di islam e immigrazione, assomma bislacchi tic statal-protezionistici, e perfino istinti anti-mercato e anti-Occidente (avendo l’Occidente base a Washington, e non a Mosca) fuori tempo massimo.
Cosa rimane, allora. Rimane tantissimo e, occorre dirlo, esclusivamente grazie a un colpo di reni politico di Silvio Berlusconi, che s’è inventato due candidati eterodossi, ottimi per rompere il canovaccio del Partito della Nazione scortato ai lati dai suoi migliori alleati, gli urlatori salvinian-grilleschi, non solo votabili, ma addirittura votabili convintamente, e in questo momento è un mezzo miracolo. Sono le due partite chiave, e non solo perché coinvolgono le uniche due città che contano, la capitale della Produzione e quella del Palazzo. Lo sono soprattutto perché sfociano naturaliter in una partita nazionale, prospettica, il cui titolo è esattamente “quale centrodestra”. Parisi, Marchini, il Berlusconi uscito dall’angolo che ha lanciato il primo e ha converso sul secondo, i mondi che si sono svegliati dal loro torpore grazie a queste due candidature, e che non a caso sono mondi civici, laboriosi e borghesi, dicono chiaramente: un centrodestra largo, a vocazione riformatrice vera, non parolaia come il concorrente, che fa delle ragioni dell’individuo, della famiglia e dell’impresa il proprio perno, che lavora per contenere e possibilmente diminuire il perimetro del pubblico nelle nostre vite, che non vede il cittadino come bancomat da cui prelevare per il proprio mantenimento, che prevede un disboscamento della selva delle partecipate e un ripristino del principio di sicurezza nelle nostre città, insomma fondamentalmente un centrodestra liberale.
Giovanni Sallusti (L’Intraprendente)
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