Milano 8 Giugno – Si è detto e scritto del Laboratorio Milano, a volte senza spiegarne il vero significato politico e le sue potenzialità. Stefano Parisi ne è, al tempo stesso, la new entry e il simbolo, dopo questo primo turno. Ma andiamo con ordine.
A occhio, le novità più visibili di questa tornata elettorale sono, appunto, Parisi voluto a Milano da Silvio Berlusconi e le due donne del M5S, una delle quali, Virginia Raggi, che conferma le previsioni di un suo probabile Campidoglio (ma non sottovalutate uno come Roberto Giachetti); mentre la torinese Chiara Appendino getta fra i piedi del supercerto (prima) Piero Fassino un sorprendente secondo incomodo sotto la Mole. La terza donna candidata, Giorgia Meloni, paga un doppio pegno: le incertezze iniziali fra sì, no e “ni” e le divisioni interne dalle quali, peraltro, Matteo Salvini ottiene, qua e là, successi e insuccessi. Di questi ultimi, il più eclatante si chiama Milano. Qui la Lega è stata praticamente raddoppiata da una Forza Italia data in caduta libera e, al contrario, gratificata da una vera e propria resurrezione nel contesto di un doppio scontro, sia fra Giuseppe Sala e il candidato milanese di Berlusconi, sia fra quest’ultimo e Salvini a Roma, con l’insuccesso doppio di Meloni e Alfio Marchini.
Quanto costeranno le interne divaricazioni di un centrodestra che non pare più a trazione Salvini lo si vedrà. Ma già qui a Milano, e non da oggi, la formula, peraltro in crisi un po’ dovunque, si connota di caratteristiche tanto diverse quanto importanti nella misura con la quale la scelta di Stefano Parisi ha messo in crisi innanzitutto il candidato voluto soprattutto da Matteo Renzi. Il quale, a conti (quasi) fatti, si sta accorgendo non solo di non controllare il suo partito, vedi il disastro napoletano, ma di avere troppo “napoleonicamente” innescato sul versante delle amministrative il gioco pesante del referendum, indebolendosi in entrambi. Ma il punto non è questo, almeno per chi scrive da Milano. Qui Parisi ha saputo far prevalere una linea scaturita non tanto o non soltanto dalla sua personalità quanto, soprattutto, dal profondo cuore di una città in cui la sua storia dimostra che il moderatismo e il riformismo si sono sempre dati la mano in un unicum amministrativo da oltre settanta anni, dando un contributo essenziale alla sua crescita. Il dato curioso era ed è costituito dalla similitudine fra i due candidati, due veri e propri top manager dei quali l’uno, Beppe Sala, è reduce dal successo dell’Expo che l’ha di certo favorito; l’altro, Stefano Parisi, ha compiuto il doppio miracolo: di un’effettiva unione interna dei diversi fra i quali quel Salvini gratificato dai mass media – anche del Cavaliere, si capisce – nel suo radicalismo, e di un irretimento dello stesso dentro una visione in cui ha prevalso il moderatismo riformatore grazie al quale è stato praticamente annullato il vantaggio iniziale dello schieramento di centrosinistra che dava stravincente Sala.
Un punto che non finiremo mai di sottolineare, parafrasando l’immortale George Orwell, è che i due candidati erano bensì uguali ma uno era più uguale dell’altro. Nel senso più squisitamente politico, beninteso. Questo lo scrivevamo nella nostre cronache precedenti e lo ribadiamo a maggior ragione dopo questo primo turno nel quale il crescendo di Parisi si è giovato di una marcia in più che era, appunto, politica, facendo perno sulle esigenze modernizzanti della città, sulle emergenze, peraltro non solo milanesi, come l’immigrazione ma senza calcarne i toni, così come l’approccio alle problematiche esistenziali di una metropoli complessa hanno rifiutato gli acuti tenorili contro un inesistente Far West preferendo una disamina lucida, critica ma sempre equilibrata e costruttiva.
Inutile, se non dannoso, fare ora previsioni o quel che è peggio, trionfalismi. Ma è fuori dubbio che il modello Milano si chiama oggi modello Parisi, e lo è tanto in quanto potrà imporsi all’esterno, ovvero nel Paese come proposta politica. Perché questo è il vero significato del Laboratorio Milano, quello di proporsi come un progetto credibile e dunque competitivo sullo sfondo di un paesaggio politico nazionale cambiato, contraddistinto ormai da tre poli. Nella città culla del berlusconismo d’antan – erede dei partiti annientati dalla falsa rivoluzione giudiziaria – sembra stia dunque emergendo qualcosa di nuovo, anzi di antico, con una nuova leadership, qualsiasi sia il risultato del ballottaggio. Meglio ancora se vincente grazie all’equilibrio, alla serietà e alla preparazione, in una parola: alla credibilità di Stefano Parisi.
Paolo Pillitteri (L’Opinione)
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