La Brexit una tragedia? Anche no

Approfondimenti Esteri

Milano 27 Giugno – Avevo 16 anni (parliamo degli anni Settanta del secolo scorso…) e nelle scuole c’era la giornata dedicata alla Comunità europea. All’epoca non era ancora l’Unione, ma la narrazione obbligata era che quello fosse l’approdo fausto e obbligato. E i temi degli studenti, dedicati alla faccenda, non potevano/dovevano distaccarsi dall’esaltazione del progetto europeo.

Ingenuamente pensai di potermi discostare dal mainstream descritto, e scrissi un tema in cui esprimevo una serie di perplessità. Non era, la mia, una contrarietà personale all’utopia degli Stati Uniti d’Europa, piuttosto la constatazione che eravamo parecchio lontani dall’andarci almeno vicino, e mi sembrava che le ragioni degli ostacoli fossero piuttosto robuste, non semplici da superare. Concludevo, me lo ricordo ancora, con la frase: finora l’Europa delle Nazioni (espressione celebre di Cherles De Gaulle) ha avuto la meglio sull’idea della Nazione Europa.

Non vi dico il dramma che ne fece la professoressa di Lettere, che quasi mi tolse il saluto. Non mi piacciono sofisti e sofismi, ma non è tanto difficile imitarli, per cui, visto come l’aveva presa la prof., presi carta e penna e rifeci il tema, stavolta del tutto politically correct. L’insegnante, discutibile ma non stupida, mi disse perplessa “adesso va bene, ma immagino che tu la pensi nel primo modo…”. Ma va?

Questo aneddoto per spiegare come non sia mai appartenuto, fin da giovane, alla lega degli euro-entusiasti, e tutt’oggi condivido il pensiero di politologi avveduti come Angelo Panebianco che, realisticamente, sponsorizza un’Europa Confederata, con competenze ridotte alle attuali, concentrate su alcuni settori (tra cui la sicurezza, la difesa) e non con la pretesa di occuparsi – ingerire – sull’universo mondo.

Passando al fatto del giorno, mentre mi asciugo le lacrime per il bagno di sangue che virtualmente lacera i miei risparmi ancorché custoditi in fondi prudenti, penso che la Brexit possa veramente essere un’opportunità preziosa, e la chiacchierata con un imprenditore, saggio e carissimo amico, mi ha fatto riflettere su alcuni aspetti. In modo colorito il mio interlocutore ha esordito dicendo che era felicissimo che ci fossimo tolti, facile capire da dove, gli inglesi. Forse in questa affermazione c’è qualche retaggio antico di un certo sfavore nei confronti della “perfida Albione” , però il ragionamento fila. David Cameron, per favorire il “Remain”, aveva ottenuto da Bruxelles condizioni esagerate di favore, che ben difficilmente non avrebbero creato problemi generali. Quanto sarebbe passato perché altri Paesi (e non solo l’Austria, la Polonia, l’Ungheria, visti come i più inquieti attualmente, ma pure l’Olanda e altri del Nord Europa, perplessi per le ultime “cedevolezze” tedesche anche nei confronti della Banca centrale europea di Mario Draghi) si presentassero alla Commissione europea per chiedere analoghi trattamenti? Insomma, perché tenere a tutti i costi un Paese che ha sempre mostrato molta freddezza nei confronti del progetto unitario, e che per restare, sempre con un piede fuori, aveva alzato il livello dell’asticella delle pretese?

Il mio amico non lo sa, ma il suo pensiero, espresso da lui in modo più colorito ma anche lodevolmente più chiaro, è lo stesso che da tempo governa gli scritti di Sergio Romano sul Corriere della Sera. Quindi bene che la Gran Bretagna se ne vada, e anche bene, prosegue il mio interlocutore, che l’intera Europa entri in fibrillazione. Se c’erano ancora dei dubbi, la Brexit li ha spazzati via: così non si può continuare. Quindi o i tedeschi accettano di impegnarsi diversamente, rischiando di farsi male con un atteggiamento di maggiore solidarietà e quindi favorendo concretamente una ripresa generale del Continente, oppure il sogno viene giù, e, se proprio non vogliamo arrivare all’ognun per sé, certo bisognerà inventare qualcosa di diverso e più accettabile per le popolazioni dei vari Stati europei. Insomma, mai come in questo caso, la crisi può rappresentare un’importante opportunità.

Ultime considerazioni. L’affluenza alle urne è stata alla fine del 72 per cento, assolutamente consistente e ben lontana dal tradizionale 50 per cento, poco più, che spesso caratterizza le elezioni anglosassoni e che ha suggerito ai beoti nostrani l’idea che l’astensionismo sia segno di “democrazia matura”. E come mai, quando la gente ci tiene veramente e, soprattutto, pensa di poter incidere, a votare ci va in massa? Poi, certo, può accadere che non piaccia, alla gente che piace, il risultato, e che la pancia del “popolo” abbia il sopravvento. Purtroppo sono i mali della democrazia.

A mio avviso, agli inglesi conveniva tutta la vita rimanere nell’Unione europea, vista la maggiore libertà di cui già godevano (la sterlina, la Banca centrale) e le ulteriori che gli erano state concesse. E nella spaccatura verticale del Paese ci sono realtà differenti e problematiche: la maggioranza dei giovani sembra abbiano votato per rimanere, e questo acuirà lo scontro generazionale; Scozia e Irlanda del Nord pure si sono espresse contro il distacco, e questo rimetterà in moto le istanze secessioniste, specie per Edimburgo. Però, quando Farage dice che “nessuno ora potrà venirci a dire cosa conservare o meno del nostro inno nazionale”, come non capire quanto i burocrati europei abbiano fatto e facciano perché il “sogno” dell’élite intellettuale non sia diventato autenticamente popolare?

Stefano Turchetti (L’Opinione)

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