Che pena che fa la Confindustria renziana

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Milano 4 Luglio – Dobbiamo esserci sbagliati: la sede di Confindustria non si trova in viale dell’Astronomia ma in quello frequentato dagli astrologi. Solo così si possono spiegare le stime del Centro Studi sulle possibili conseguenze del no al referendum d’autunno. Un crollo del Pil del quattro percento, seicentomila occupati in meno, 430mila nuovi poveri e via strologando. Mancano solo la retrocessione della Fiorentina, l’eruzione del Vesuvio, l’invasione delle cavallette e una nuova serie di Gomorra in tv.

D’accordo, le teste d’uovo di quello che fu uno dei più potenti eserciti della politica nazionale, un tempo capace di dettare la linea ai governi e ora ridotto al ruolo di triste fiancheggiatore di Renzi, qualche conto devono pure averlo fatto. Vuoi per convincere i loro datori di lavoro di quanto sono bravi, vuoi perché così può riuscire meglio il tentativo di épater le bourgeois. In attesa di conoscere il modello applicato, le variabili considerate e tutto ciò che un qualsiasi studio serio dovrebbe contenere, a noi, profani e poco informati, resta la sensazione di una bufala colossale. Una tappa poco dignitosa del costante downgrading di Confindustria.

Come si diceva nel ’68, “il problema è politico” e ce l’ha Matteo Renzi. Quello che doveva essere il passaggio decisivo per investire lo statista di Rignano del ruolo di uomo della Provvidenza, di eroe della “democrazia recitativa” (il copyright è dello storico Emilio Gentile), rischia invece di certificare il suo fallimento. Nemmeno nel suo partito è facile trovare qualcuno disposto a seguirlo. La raccolta di firme a sostegno del referendum sta conoscendo un clamoroso insuccesso. C’è chi non firma perché Renzi gli sta sulle palle e c’è chi ha riserve sul merito. C’è, soprattutto, chi si è chiesto a quale scopo raccogliere le firme per un referendum indetto ope legis viste le richieste dei parlamentari e si è sentito rispondere, con un ammiccamento, che serve solo per partecipare ai rimborsi a favore dei comitati proponenti. E persino nel Pd renziano ci sono molti a cui i furbi non piacciono. I segnali sono inquietanti: Dario Franceschini che raccoglie le truppe e pensa a un piano B per il dopo Renzi, i giovani turchi che sondano il terreno per una possibile candidatura a segretario del ministro Andrea Orlando, i segnali dei rottamati che sognano una rivincita, i tentativi espliciti diribaltare l’ltalicum. Soprattutto quei maledetti sondaggi che danno Luigi Di Maio (Di Maio!) davanti a Renzi e indici di gradimento più alti per il Pd rispetto al suo segretario. Persino Mattarella sembra convinto a contrastare la rappresentazione di un’Italia nel caos nel caso di una sconfitta di Renzi. Il contrario della narrazione fondata su quell’après moi le déluge che è diventato il fulcro dellaresistenza renziana.

Per rompere l’assedio, al nemico dell’establishment – come solo pochi giorni fa ha tenuto a presentarsi– non resta che affidarsi all’establishment. In cambio della scomunica dei partiti e dei “politici”, rimasti i soli a rappresentare l’odiata casta, mentre tutti gli altri vengono risparmiati dagli strali dei populismi di varia ispirazione. Così Renzi, in questi giorni, si è rivolto persino alla Coldiretti perché raccolga le firme tra i trattori e le vigne. E ha sollecitato – solo così si può spiegare la presa di posizione di Confindustria – appoggi meno timidi al suo referendum. Come se davvero, di questi tempi, il vecchio collateralismo e, soprattutto, il sospetto di una contiguità con i “poteri forti” possano rappresentare una risorsa e non piuttosto un handicap di fronte alle nuove folle di sanculotti all’assalto dei palazzi. Basta vedere come sono andate le recenti amministrative.

Ma poi, quali risparmi verrebbero dalle modifiche costituzionali? Le mitiche “poltrone” di cui parla l’ultimo Renzi non si ridurrebbero poi di tanto. Quelle del Senato, che non è stato abolito, in contraddizione con la propaganda sul monocameralismo, per esempio, saranno occupate da 18 sindaci scelti a caso, da sette padri della patria destinati a scadere come uno yogurt qualsiasi e da un settantina di consiglieri regionali, eletti non in rappresentanza dei territori ma con il metodo proporzionale, cioè sulla base di una divisione tra i partiti nazionali. E questi signori, a cui la nuova Costituzione assegna poteri confusi, avranno il compito di ratificare i Trattati internazionali e di votare le leggi che derivano da accordi comunitari, cioè, dicono gli esperti, quasi l’80% delle leggi nazionali. Con l’aggravante che il nuovo Senato non è legato al governo dal vincolo della fiducia che invece lo lega all’altra Camera. E quindi può benissimo essere in contrasto con gli indirizzi e con gli impegni presi dall’esecutivo. Chissà se in viale dell’Astrologia, pardon, dell’Astronomia, hanno considerato anche il casino che ne potrebbe derivare.

Emilio Russo (L’Intraprendente)

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