Milano 28 Luglio – Il lato comico è che non azzeccano una previsione. Quello drammatico è che si sta parlando dello stato dell’economia italiana. Le stime sono sempre difficili, mai scontate, ma quando ridimensionare le previsioni diventa un esercizio normale, sorge il dubbio che gli scostamenti tra ciò che si promette e quello che si verifica non sia soltanto un problema tecnico ma che abbia invece a che fare con l’unicainflazione di cui oggi, in Italia, dobbiamo preoccuparci: quella delle promesse. Corollario inevitabile della retorica delle riforme risolutive, del cambio di passo che sarebbe in atto, del miracolo che è lì lì per verificarsi.
Anziché illudere gli italiani – ché tanto non ci credono – di essere entrati in un nuovo rinascimento, sarebbe più opportuno dire con franchezza come stanno le cose. Cioè male, molto male, purtroppo. Ad esempio che “l’Italia è l’unico Stato membro dell’eurozona il cui Pil pro capite reale è al di sotto del livello registrato prima della nascita dell’unione economica e monetaria, la cosiddettaEurozona”. Thomas Meyer, editorialista della Frankfurter Allgemeine, rileva che “persino la Grecia ha registrato, dal 1998 al 2015, una lieve crescita”. Invece, soltanto un mese e mezzo fa, Pier Carlo Padoan, ministro italiano per l’Economia, assicurava: “l’Italia sta tornando sul sentiero della crescita e sta uscendo dalla trappola infernale che aveva congelato la sua crescita per circa un ventennio prima della crisi”. Era il 10 giugno scorso, un mese e mezzo fa. Già allora si sarebbero dovuti mettere in conto l’eventualità della Brexit e, soprattutto, gli effetti del “rallentamento dell’economia mondiale” in corso da tempo. Si è preferito invece fornire rassicurazioni poco responsabili, un po’ come sta avvenendo di fronte alle difficoltà delle banche. A marzo, il presidente del Consiglio aveva addirittura twittato: “Con questo Governo le tasse vanno giù, gli occupati vanno su, le chiacchiere dei gufi invece stanno a zero”. Venivamo dal prendere atto che il Pil nel 2015 era cresciuto dello 0,9% anziché dello 0,8, dopo anni di recessione.
Sta di fatto che, dalla Cina, ora Padoan è costretto ad ammettere quanto Bankitalia e Fondo monetario internazionale sostenevano da tempo: bene che vada, l’economia italiana, nel 2016, “crescerà” dell’uno percento, contro il già modesto 1,4 previsto nei documenti di programmazione. Il vice-ministro Enrico Morando teme addirittura che le cose possano andare peggio. Ancora un volta, il Pil italiano potrebbe essere contabilizzato con un numero da prefisso telefonico. Senza contare che, dopo il 2011, il debito pubblico ha ripreso a crescere e che il tasso di occupazione italiano è di dieci punti sotto la media dell’eurozona. E che non c’è alcun segno di ripresa degliinvestimenti, calati del trenta percento dal 2008 ad oggi, mentre la produzione industriale galleggia sugli stessi valori. Misure come “la buona scuola” e il “jobs act” sono state più che altro propaganda. Intanto, come lo stesso Morando deve ammettere, la logica dei bonus non ha prodotto alcun effetto significativo sul livello dei consumi.
Così a ottobre ci attende una manovra pesante. Anche in questo caso, Padoan sembra in preda a una certa confusione che lo spinge a essere approssimativo: da 12 miliardi a 20 miliardi di euro, dice. Mentre il suo vice è perentorio: servono 20 miliardi e, aggiunge, “riforme strutturali”. Anche se poi l’elenco delle cose da fare ripropone un agenda di leggi già fatte e di interventi mancati, come quelli che riguardano la pubblica amministrazione e la spending rewiew. Quanto alle tasse, rassegniamoci: alle viste non c’è nessuna riduzione, anzi, c’è da temere che la pressione fiscale, magari per rimediare alla leggerezza di qualche banchiere, possa aumentare ancora.
Manca la fiducia, dicono quelli del governo. Vero. Ma la fiducia è una risorsa politica, in senso vasto, e si conquista con una credibilità che gli italiani, anche quando vanno a votare o quando si astengono dal farlo, sembrano non riconoscere più di tanto alle classi dirigentiattuali. La premessa per recuperare terreno sarebbe tornare ad avere alla testa del governo e delle associazioni di interessi persone serie, abbandonare trionfalismo e facilonerie, parlare agli italiani e ai nostri partner un linguaggio-verità, sapersi meritare l’impegno di tutti a rimboccarsi le maniche. Chiamare tutti ad alzare l’asticella del proprio impegno, a lavorare per innalzare la produttività del sistema almeno a livelli decenti. Avere dell’Italia un’idea diversa da quello che rischia di essere ora: una nazione in cui i giovani che hanno studiato cercano fortuna all’estero e in cui si aggirano frotte disordinate di migranti “accolti” in qualche modo e costretti a vagare senza nessuna logica in attesa di poter scappare, anche loro, da questa Italia. Bisognerebbe rinunciare a esibire ammiccamenti, distribuire mance, accampare alibi, smettendo di utilizzare in modo ossessivo le “armi di distrazione di massa” dai problemi reali del Paese. Come quando si indica nella (finta) abolizione del Senato al centro del referendum renziano o nel passaggio a un sistema elettorale iper-maggioritario le strade per incamminarsi verso nuove “magnifiche sorti e progressive”.
Emilio Russo (L’Intraprendente)
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