Milano 31 Luglio – In Italia come in Francia, senza finanziamenti dall’estero — leggi: dai Paesi del Golfo — non si costruiscono moschee. O quanto meno non si avviano progetti ambiziosi. Perché le bonifiche, le ristrutturazioni, i cantieri richiedono fondi ingenti e le donazioni dei fedeli al venerdì in genere non bastano a coprire le spese.
La prima grande moschea in Italia, disegnata nel 1984 e inaugurata a Roma nel ’95, fu edificata grazie all’investimento economico della famiglia reale saudita, e ancora oggi si regge sul contributo di Riad. Da allora, per le complicazioni burocratiche e, a monte, per la mancanza di un «concordato» con l’Islam italiano, le moschee ufficiali sono soltanto sette, compresa quella di Segrate, alle porte di Milano, che nasce in realtà come cappella adiacente al cimitero. Una cifra irrisoria a fronte di una comunità di fedeli arrivati ormai a un milione e settecentomila (fonte Ismu). Al tempo stesso, per rispondere alle richieste dei praticanti musulmani, il territorio è disseminato di «centri di cultura» facenti funzione di luogo di culto. Alcuni ampi e accoglienti, moltissimi «di risulta», negli scantinati, nei magazzini e nei garage. Se ne stimano — ma è impossibile una mappa precisa — circa 800.
Ufficiali o ufficiose, da dove arrivano i soldi? Protagonista assoluta dei più recenti investimenti in moschee in Italia (ma anche altrove in Europa) è la Qatar Charity. Formalmente un’organizzazione non governativa, di fatto chiara emanazione dell’emirato. Secondo alcune stime, si parlerebbe di cifre attorno ai 6 milioni di euro l’anno. Grazie al contributo dell’ente, sono state costruite le moschee di Ravenna e di Colle Val d’Elsa, nel Senese. E nel sostegno della Charity speravano anche i musulmani milanesi che avevano fatto progetti sull’area dell’ex Palasharp, prima del fallimento del bando comunale. Appena oltre confine, a Fiume, è stato lo stesso emiro a inaugurare, nel 2012, una grande struttura su tre piani da 7,4 milioni di euro.
Da informazioni del Corriere, però, la Qatar Charity sta acquisendo lungo la penisola diversi immobili da destinare a «moschee di fatto», per aiutare la comunità nell’attesa della costruzione di luoghi di culto ufficiali. In molti casi non si tratta di progetti completamente finanziati dall’ong dell’emirato, ma di una quota che si somma all’investimento dei fedeli. Che resta ancora la principale fonte di finanziamento. «La nostra prospettiva è l’autosufficienza», spiega Davide Piccardo, portavoce del Caim, il Coordinamento delle associazioni islamiche milanesi. La speranza è anche aver accesso a fondi pubblici un giorno, «alla luce del fatto che i cittadini musulmani pagano le tasse come i fedeli delle altre confessioni». Qualcuno, anche tra i politici italiani, ha lanciato l’ipotesi di coinvolgere le associazioni islamiche nella distribuzione dell’8 per mille (ma resta, a monte, l’impossibilità di avere un rappresentante unico dei musulmani che sigli un’intesa con lo Stato).
Oltre che da Qatar e Arabia Saudita, i contributi all’Islam italiano arrivano da Paesi dell’area come il Kuwait. E anche dalla Turchia, che ha una tradizione di investimenti in centri islamici tra le comunità emigrate all’estero. Con il marchio del governo Erdogan ma anche con il sostegno del «rivale» Fethullah Gülen.
In totale si parla di decine di milioni di euro. Che, però, sono tracciabili: a preoccupare non sono i grandi flussi di denaro provenienti dalle mega-fondazioni del Golfo, spiega al Corriere il vicepresidente del Copasir, Giuseppe Esposito. L’attenzione «oggi è concentrata sui piccoli finanziatori dietro cui si possono nascondere cellule terroristiche e soprattutto sul denaro in uscita dal nostro Paese: ogni settimana ci sono decine di milioni di operazioni in uscita». Quello che è importante intercettare, allora, è un altro flusso. Ragion per cui dal primo agosto la Guardia di Finanza renderà operativa una nuova divisione del secondo reparto che si chiamerà: «Gruppo di investigazione finanziamento al terrorismo». Meno visibile e più pericoloso.
Alessandra Coppola e Giuseppe Alberto Falci (Corriere della Sera)
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