Milano 2 Agosto – Domani conosceremo gli esiti del nuovo round di stress test delle maggiori banche europee, tra cui 5 italiane. Da mesi la tensione si è concentrata in Italia sul risultato del Montepaschi. Mesi in cui l’indice bancario italiano ha perso più di qualunque altro in Europa tranne che in Grecia, grazie anche alla campagna tambureggiante che politica e autorità di regolazione italiane hanno montato contro le regole europee. E’ stato un boomerang: tanto alta è stata la polemica contro il principio del burden sharing – la compartecipazione ai costi di rafforzamento o risoluzione delle banche da parte degli azionisti e degli obbligazionisti subordinati entro l’8% delle passività – che alla fine media e analisti finanziari di tutto il mondo hanno individuato di nuovo l’Italia come il ventre molle dell’Europa post Brexit. Nel 2011 fu per il debito pubblico, oggi per i crediti deteriorati delle banche: quasi il 18% del totale degli impieghi, un terzo di quelli dell’euroarea, 360miliardi di euro tra incagli e sofferenze, di queste ultime più di 80 miliardi netti.
Era necessario? No. Nelle settimane la mala parata istituzionale dell’Italia è apparsa sempre più chiara. Dalla richiesta esplicita di sospendere la direttiva europea BRRD in quanto addirittura incostituzionale, a quella di evitare il burden sharing, al consentire allo Stato di entrare nel capitale bancario senza che avvenga in proporzioni pari a nuovo equity bancario risultante da conversione di obbligazioni degli stessi istituti, alla fine MEF e palazzo Chigi hanno dovuto sempre più decisamente ripiegare dicendo “ma no, nessuna deroga, a cominciare da MPS gli interventi necessari osserveranno i criteri di mercato e le regole Ue”. I portavoce e i sostenitori delle autorità italiane possono dire quel che vogliono, ma è ovvio e macroscopicamente evidente che hanno sbattuto contro un muro, mal giudicato la situazione, e sbagliato la terapia alla quale si erano abbarbicati con toni sempre più ultimativi.
Per il caso MPS, l’errore è ancor più clamoroso. Da 5 anni, esplosi i conti dell’istituto senese dopo gli anni di Mussari, il prezzo pagato per l’acquisizione di Antonveneta, e i tentativi di nasoconderne gli effetti, i regolatori hanno battuto una strada che i fatti hanno dimostrato sbagliata. Nel 2012 – quando le regole europee lo consentivano – era preferibile far intervenire in MPS lo Stato, azzerare gli azionisti, convertire in equity parte delle obbligazioni, in maniera diretta o tramite warrant come accadde per il Nuovo Ambrosiano, ripulire gli attivi, e ricederla al mercato. Invece si scelse di salvare nel tempo la Fondazione cara al Pd, sia pur facendole cedere il controllo della banca, e impiccare quest’ultima, priva di redditività com’era, a pagare i pingui interessi dei Monti bonds concessile. Dopo 10 miliardi di successivi aumenti di capitale bruciati, e malgrado il volenteroso nuovo management , ora siamo ancora a quel che andava fatto allora.
Domani dovremmo conoscere gli interventi deliberati su MPS prima del risultato degli stress test, previsto in tarda serata. MPS dovrebbe cedere circa 27 miliardi di NPL lordi cioè 9,7-10 miliardi netti, dando una bella botta al mote complessivo che ha in pancia. E ricapitalizzarsi, seguendo le procedure e le regole previste per una banca in difficoltà sì, ma ancora solubile.
La richiesta italiana di cedere questi crediti deteriorati al valore di libro, che stante il tasso di copertura attuale a Siena è di 37 centesimi per 100 di nominale, non è passata perché viola la regole. Se il prezzo sarà intorno a 30 centesimi, allora l’aumento di capitale necessario a MPS sarebbe nell’ordine dei 4-6 miliardi: 2 circa per fronteggiare le minusvalenze sul prezzo di cessione dei NPL, e il resto dovuto per portarsi avanti nell’innalzamento della copertura dei crediti deteriorati che i regolatori europei chiedono di innalzare al 55% del valore nominale al 2018, e per ammortizzare gli schemi interni della banca, di valutazione del passaggio da incagli a sofferenze. Un aumento di capitale di mercato coordinato da Mediobanca e JPMorgan (per il quale si sono fatti i nomi di primarie banche mondiali interessate, vedere per credere) con garanzia pubblica per l’inoptato che potrebbe non scattare se davvero le grandi banche estere partecipano, visto che altrimenti metà dell’inoptato dovrebbe essere coperta da conversione di una parte delle subordinate in equity, e l’altra metà dell’inoptato eventualmente assunta dallo Stato: poiché a queste condizioni i regolatori europei non avrebbero nulla da dire. Mentre i 10 miliardi di NPL verrebbero assunti in tre modalità diverse secondo coefficiente dio rischio: la parte junior più rischiosa si dice dagli stessi maggiori azionisti di MPS per quota parte detenuta, la parte mezzanine da Atlante, che ha in pancia ancora 1,7 miliardi dopo aver assunto Popolare Vicenza e Veneto Banca (ma non potrebbe impiegarli tutti, visto che qualcosa deve restarle in pancia per sopperire alle esigenze “venete”), e la parte senior con GACS di Stato che però, avendo tempi lunghi per i rating necessari, ha senso nell’immediato solo grazie a un maxiprestito ponte di 6-7 miliardi garantito ancora una volta da JpMorgan, di cui MPS era uno dei maggiori clienti europei.
Parliamoci chiaro. E’ solo il primo passo. Siena deve trovare poi casa ed essere acquisita da altri, vediamo se da Ubi Banca o da chi. Unicredit a propria volta ha bisogno di un rafforzamento del capitale, vedremo se e di quanto inferiore a 8-9 miliardi. Le 4 banche risolte a novembre sono state un altro secchio di ghiaccio per l’ottimismo dei regolatori italiani, visto che al Fondo mutualistico interbancario la loro messa in sicurezza è costata 1,7 miliardi mentre le proposte per rilevarne le good banks avanzate da Apollo e Lone Star non arrivano a 500 milioni. E questo significa che abbiamo impegnato per i prossimi tre anni a venire l’intero ammontare del fondo interbancario, per fargli intanto incassare una bella perdita che andrà subuito ricostituita. E se guardiamo più avanti, la richiesta di BCE di far salire entro il 2018 al 55% la copertura del monte NPL del sistema bancario italiano significa, per le sole banche quotate, altri 27 miliardi di maggior capitale necessario.
Questi i numeri. I derivati in pancia a Deutsche Bank non c’entrano nulla. Era chiaro sin dal 2011-2012 che sarebbe esploso il monte crediti deteriorati, in un paese tanto bancocentrico ed esposto nel tempo alla perdita del 25% di produzione industriale. Ma allora i governi Monti e Letta non vollero percorrere la strada di Spagna e Irlanda, per non sottoporsi a programmi di sostegno europeo “vincolati”: si è preferito ripetere a vuoto che il nostro sistema era solido, dando del matto e del traditore dell’Italia a chiuque – tra cui chi qui scrive – numeri alla mano ha argomentato l’opposto. Quando ogni inchiesta penale aperta sulle 4 banche risolte a novembre, sulla Vicenza e su Veneto Banca, comprova massicce prassi di credito relazionale, prestiti a soci e amministratori senza garanzie, patrimoni di vigilanza autofinanziati per anni vendendo proprie azioni e obbligazioni a chi voleva mutui e prestiti. Nel silenzio dei regolatori. E’ su queste gravissime, estese e purtroppo a lungo tollerate prassi, che i sostenitori del “sistema solido” e “tutta colpa dei tedeschi” vogliono stendere un silenzio tombale. La “tutela dei risparmiatori” nasconde invece uno scudo totale di impunità per i regolatori.
Il governo ha avuto il merito di azzeccare la riforma delle popolari, a febbraio 2015, e i regolatori il torto di aver ritardato e diluito quella delle BCC. Sono stati opportuni gli interventi per accelerare i tempi del recupero crediti nella giustizia civile (hanno un alto impatto nel determinare il basso valore che il mercato riconosce ai NPL italiani), e utile ma assolutamente non risolutrice la GACS, la garanzia di Stato sulle tranche senior delle cartolarizzazioni bancarie (che come si vede da sola NON evita ricapitalizzazioni alle banche, in caso di inadeguato tasso di copertura dei NPL) . Ma in un mondo in cui la politica chiede alla Bce tassi negativi a oltranza per diminuire l’onere dei debiti pubblici – e quello italiano ancora cresce – per le banche non c’è margine di intermediazione, e in cui la crescita attesa del PIl intanto frena, per il credito deteriorato bancario italiano è come se si stesse di nuovo riscaldando il liquido refrigerante che impedisce la fissione alle sbarre di uranio di una centrale atomica. Gli incagli continueranno a diventare sofferenze.
Era meglio pensarci nel 2011, ed è meglio oggi capire che occorrono grandi fusioni di banche piccole, e non chiedere alle banche sane di continuare a svenarsi per quelle scassate. Un’ultima cosa: è una pagina nera aver piegato la mano alle casse previdenziali private, per estorcere loro mezzo miliardo da dare ad Atlante per rilevare rischiosamente i crediti deteriorati delle banche. Le casse previdenziali devono investire in maniera cauta. Invece prima due anni fa questo governo ha brutalmente alzato loro le tasse, e oggi ha detto loro “ve le abbassiamo, se ci date il vostro patrimonio”. Viva la cassa dei dottori commercialisti, la prima che ha avuto il coraggio e la coerenza di opporre un secco no alla richiesta del governo, un buon esempio seguito da altre, mentre l’associazione di settore ha vergognosamente issato bandiera bianca. Atlante1 sarà di nuovo vuota di capitali, dopo MPS. E vedremo quanti miliardi raccoglierà davvero Atlante2, sommando i denari chiesti dalò governo a Generali, Unipol, PosteVita e alle casse previdenziali. Le reiterate dichiarazioni di voler addirittura tramite Atlante riprezzare l’intero stock nazionale di azioni, obbligazioni e NPL bancari oggi appare anche al più strenuo ripetitore di slogan come una velleità insostenibile: ma c’è stato chi ha avuto l’onestà intellettuale di dirlo sin dal primo giorno. Ma è stato trattato come un paria, prima che i fatti ammutolissero i propagandisti.
Speriamo dunque che serva la marcia indietro che si profila domani – vedere per credere, naturalmente. Restiamo sin qui inchiodati a immaginare soluzioni di retroguardia per questa o quella piaga, invece di imboccare con decisione le scelte necessarie per una profonda trasformazione dell’intero sistema bancario: non solo della numerosità eccessiva dei suoi attori e del peso insostenibile dei suoi costi fissi, ma del loro modello gestionale, industriale e commerciale. E’ a questo che si dovrebbe pensare. Inutile continuare ad almanaccare su alternative alle ricapitalizzazioni di mercato, fusioni e rispetto delle regole europee. A meno di non pensare che l’euro l’anno prossimo salti insieme all’unione bancaria: un obiettivo che – da quanto letto in questi mesi – ormai non sembra più perseguito esplicitamente solo da un numero crescente di politici italiani, ma contemplato da estesi ambienti delle stesse autorità di regolazione italiane. Visto che la contestazione frontale che esse alimentano non è solo alla BRRD e al burden sharing: è ai criteri degli stress test, a quelli per valutare gli asset pesati per i rischi, alle ispezioni di vigilanza BCE e a come si comunicano i loro risultati, ai crescenti coefficienti di capitale previsti dagli accordi di Basilea, e via continuando immaginando un sistema bancario italiano che si automisura su parametri solo nostrani, respingendo tutti quelli comuni e fondamentali per i mercati…
Oscar Giannino (Leoni Blog)
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