La Grande Milano nelle rughe delle  mani stanche di Lorena

Le storie di Nene Vecchia Milano

Milano 5 Agosto – La fatica del vivere nelle rughe delle mani stanche di Lorena. Rughe che si rincorrono senza allegria, rughe che raccontano fame e dolori, rughe che hanno scandito il tempo. Infinite rughe, ragnatele incise di memorie, di rinunce, di sacrificio. Lorena gesticola offrendo la sua vita, disegnando nell’aria un passato di donna del sud, il viso paffuto dell’ottimismo, una carnagione lattea di simpatia. Ma quelle mani ricordano la fatica nei campi, la catena di montaggio in una fabbrica a Milano, due figli da mantenere e fare grandi, una casa popolare buia di sconforto e difficoltà, un fiore rosso alla finestra, il colore del suo carattere. Raccontare per non dimenticare come Milano potesse essere il luogo del riscatto, del lavoro, delle opportunità. Raccontare per capire l’incontro generoso Nord-Sud, per descrivere una Milano che integra con rispetto e solidarietà.

 “Mi vestivo di rosso per colorare la nebbia, nelle giornate di malinconia, la vicina di casa  mi aveva regalato un cappotto blu che pesava un quintale, ma era caldo e avvolgente. Imparai subito a fare il risotto perché i miei figli si sentissero un po’ milanesi e l’osso buco, ma la carne era un mangiare da ricchi, per le grandi occasioni. E sapevo fare una pizza che neppure in pizzeria sapevano fare ed era il mio grazie per le cortesie di chi si occupava del bambino più piccolo mentre andavo al lavoro o accompagnava il più grande a scuola. Perché le case popolari, allora, erano una grande famiglia, una grazia ricevuta, quasi un premio per chi volesse lavorare con impegno, non importa da dove venisse e che dialetto parlasse. Pensavo: “Io faccio la mia parte con onestà e Milano mi regala il lavoro e l’opportunità di avere un tetto” E mi sembrava uno scambio giusto e ragionevole. Si parla tanto di profughi e di integrazione, ma quanti di questi profughi sono disposti a sacrificarsi, a imparare la nostra lingua, ad amare una città che li accoglie? E se il lavoro non c’è per gli italiani, perché non mettere un limite all’accoglienza? Forse è un ragionare semplice, ma anch’io ho aspettato tre anni prima di raggiungere mio marito a Milano. Ho aspettato che si sistemasse con il lavoro e la casa, perché ai bambini bisogna offrire sicurezza. Poi in un incidente sul lavoro morì, cadendo da un’impalcatura e fu un grande dolore. Iniziò allora un calvario di incertezza e di difficoltà fino all’assunzione in una fabbrica che produceva le radio. E mi sentivo importante, perché erano radio vendute in tutta Italia e anche all’estero. E quando parlano della Grande Milano, della Milano che ha saputo imporre la sua creatività e la sua operosità, penso anche a me stessa e alla fatica dei tanti operai che hanno lavorato con dedizione per renderla Grande”

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