Milano 23 Agosto – I numeri al lotto che accompagnano le congetture agostane sulla legge di stabilità prossima ventura vanno presi per quelli che sono, e noi siamo fermi all’impegno preso con questo giornale dal ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su pochi articoli di legge e pochi interventi che pongano al centro della politica economica italiana la crescita sana con un mix di misure strutturali (detassazione del salario di produttività e riduzione del cuneo fiscale, riforma effettiva della pubblica amministrazione) e di misure mirate (superammortamento, leva fiscale per l’innovazione, con industria 4.0, e per l’edilizia) che contribuiscano a rilanciare gli investimenti e le opportunità di lavoro. All’agenda italiana Padoan affianca un impegno rafforzato in Europa perché prenda corpo un flusso europeo di finanziamenti produttivi che possa stabilmente sostenere la crescita e perché prevalga la consapevolezza dell’obbligo di completare l’Unione bancaria e di agire in un mondo, ripiegato su se stesso, con la forza di un soggetto politico-economico unico, anche se portatore di tante diversità.
In questo scenario, segnato peraltro dalla cronica scarsità di risorse dello Stato italiano, erose dai vincoli del debito, non c’è spazio per nuove prebende al pubblico impiego o nuovi interventi tipo bonus da 80 euro (magari per i pensionati) diretti a conseguire consenso immediato. Guai solo a pensarlo. Occorrono, viceversa, il linguaggio della verità (la situazione è ancora grave e questo non vuol dire che non si è fatto nulla), l’ambizione di mettere al centro dell’azione di governo produttività e investimenti pubblici e privati, il coraggio di uscire dal piccolo cabotaggio e di dire chiaro e tondo che non sono più possibili scambi elettorali (sempre e comunque sbagliati) per cominciare a costruire con lungimiranza il futuro del Paese in una navigazione difficile tra i marosi della debole congiuntura internazionale, la fragilità dei mercati, le nostre specifiche, pesanti anomalie, e quelle di un’Europa ancora troppo tattica e incompiuta.
Queste sono le cose serie di cui occuparsi e questo significa fare il bene dell’Italia: solo un percorso così chiaro e lineare può legittimare a chiedere e ottenere in casa che tutti facciano la loro parte, a partire dalle imprese che devono smetterla di inseguire aiuti assistenziali e devono sapere fare il loro mettendoci capitali e intelligenza e affrontando fino in fondo la sfida dimensionale-manageriale e quella dell’innovazione, e può renderci credibili in Europa per chiedere e ottenere che le cose cambino accordando una “flessibilità buona” all’Italia e iniziando a attuare un assetto europeo dove condivisione dei debiti e politiche di sviluppo camminino insieme in uno spirito finalmente solidaristico. Questa, non altre, è la posta in gioco e Renzi si deve mettere in testa, una volta per tutte, che il suo nemico non sono i grillini, ma la mancata crescita e l’assenza di uno spirito di condivisione che allarghi le consapevolezze e permetta di rendere effettivo questo sentiero virtuoso.
Paolo Pombeni non è solo uno dei principali editorialisti del Sole, storico dei sistemi politici europei e professore emerito dell’Università di Bologna, per me è anche un amico speciale da molto tempo con il quale condivido, tra le altre, la passione civile per l’opera e la figura di Alcide De Gasperi di cui lui è uno dei massimi conoscitori.
Forse, anche per questo, non mi ha stupito la sua telefonata con la quale mi sottolineava il riferimento alla “pazienza” usato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua lectio agostana a Pieve Tesino dedicata allo statista trentino e, soprattutto, la frase a lui attribuita grazie alla testimonianza diretta di un collaboratore: «Non si vuol comprendere che bisogna preparare la svolta senza che il carro si rovesci».
De Gasperi, politico di professione
Pombeni chiosa: «È una frase autenticamente “degasperiana”, non solo per il concetto che esprime, ma anche per la metafora, che deriva da quella immersione nella civiltà contadina delle sue montagne che De Gasperi non dimenticò mai». Si trattava, in quel caso, di uscire dal vecchio sistema dove erano convissuti monarchia e fascismo per entrare in un orizzonte tutto nuovo, repubblicano e democratico, è evidente che un uomo come De Gasperi che aveva visto che cosa era successo in Germania dopo la prima guerra mondiale, la deriva della Repubblica di Weimar e il sorgere degli estremismi, e aveva conosciuto proprio in quegli anni la prigione senza mai esitare a dichiararsi politico di professione (come il chirurgo può fare solo il chirurgo e l’ingegnere solo l’ingegnere, al massimo cambiano ospedale o politecnico, io posso fare solo il politico… scriveva in sostanza alla moglie in una lettera dal carcere) non poteva non avvertire il carico morale e il peso propriamente politico della doppia responsabilità di guidare e gestire una transizione così complicata.
Le paure della Chiesa
La Chiesa aveva le sue paure e non “aiutava” di fronte alle mille incognite quotidiane, la pubblica amministrazione storicamente permeabile alle pressioni e ai voleri del vecchio regime non si presentava di certo come una roccaforte a difesa dei nuovi ideali, le forze politiche e intellettuali erano divise da profonde passioni ideologiche, le famiglie contavano i morti, l’economia usciva dalle macerie della guerra e doveva riorganizzarsi totalmente passando da un sistema agricolo minore a un assetto fondato sull’industria, il dualismo territoriale del Paese apriva fossati profondi all’interno del tessuto civile e sociale.
Un carro ancora fragile
Se non si fosse tenuto in debito conto questo contesto e si fosse derogato dal linguaggio della verità, il fragile carro della nuova democrazia italiana rischiava davvero di ribaltarsi. De Gasperi si affidò alla coesione e al fare, non rinunciò mai a essere presente dove riteneva che fosse giusto (memorabile l’intervento alla riapertura della Scala a Milano: questo Paese ha due soli capitali, il lavoro e la cultura, facciamo in modo che fruttino e si capisca che abbiamo rialzato la testa, questo il succo), soprattutto ripeté ostinatamente nei suoi discorsi di quel periodo che tutto si doveva tenere, in questo senso la “pazienza”, e alcuni scambiarono equilibrio e accortezza come il senno di un conservatore timoroso della rivoluzione alle porte, altri, all’opposto, lo giudicarono incapace di dare una svolta determinata che placasse le inquietudini di un’epoca che non si sapeva ancora come si sarebbe evoluta. Sbagliarono i primi e i secondi perché il politico di professione De Gasperi non lisciò il pelo a nessuna delle inquietudini di moda, spezzò con i fatti la spirale italiana sempre incombente delle demagogie più o meno ricorrenti, volle che dietro il centrismo ci fosse una “matrice umanistica” che facesse i conti, sotto una spinta etica costitutiva, con la povertà diffusa e un rapporto forte con i ceti produttivi e le rappresentanze dei lavoratori. Si posero i semi di una cultura politica che si allargava nei fatti alle anime liberale e azionista che avrebbe prodotto in seguito buoni frutti, si garantì un ancoraggio europeista solido che avrebbe sanato le ferite della seconda guerra mondiale e mise quest’uomo di confine insieme ad altri due uomini di confine, Adenauer e Schuman, alla testa della nuova locomotiva europea con la dignità che si riconosce ai grandi della politica e ai Paesi che loro rappresentano.
Questo insegna la storia politica di De Gasperi e del miracolo economico italiano di cui il suo centrismo pose le basi e di un’Europa già da allora pensata e sognata come federale. Ogni stagione politica è differente dalle altre. Di sicuro, però, in quest’epoca tormentata in cui viviamo oggi, di tornanti da superare ce ne sono molti e le strade sono rese scivolose, soprattutto in Italia, da tanti fattori e da troppo tempo. Sono scomparsi dieci punti di prodotto interno lordo e si è volatilizzato un quarto della produzione industriale, se possibile le due Italie sono ancora più distanti e, soprattutto, strutturalmente diverse. Si avvertono i segni terribili della più lunga crisi globale finanziaria e sono i segni di un mondo nuovo, digitalizzato e ancora più diseguale, attraversato da mille focolai di crisi geopolitica e in forte rallentamento congiunturale, dove i danni subiti sono per noi pari, se non superiori, a quelli di una terza guerra mondiale persa. Sui mercati, Brexit o non Brexit, prevale l’incertezza, abbiamo una delle Borse più sottovalutate al mondo, i valori delle nostre banche sono risibili soprattutto per le tante ben capitalizzate e ben gestite. Sul Monte dei Paschi si è fatto quello che si doveva fare e le banche italiane hanno superato gli stress test, non sono obbligate a ricapitalizzare però dovranno fare qualcosa, ma i mercati si chiedono se Mps ce la farà per davvero, non sanno di quanto sarà la tegola per le altre banche e, quindi, giù botte, a torto o a ragione, anzi sicuramente a torto, tra una speculazione e l’altra. Poi c’è il bubbone di Commerzbank e delle casse tedesche, l’incognita dei derivati della Deutsche Bank e lì, dicono i mercati, ancora una volta a torto o a ragione non conta, è un bel macello, a fine anno scoppierà il bubbone, si dovrà in un certo senso agire.
Insomma, facciamo i conti ogni giorno con la mancanza di notizie certe, in uno scenario avverso con tassi negativi che incidono sulla profittabilità, e in questo quadro è difficile fare in modo che prevalga una valutazione granulare e non all’ingrosso dei crediti in sofferenza italiani: il senso d’insieme prevalente è che i termini a venire saranno penalizzanti e la realtà (amara) è che a pagare ingiustamente il conto più pesante è sempre l’anello debole e quell’anello debole siamo noi, soprattutto per il macigno del debito pubblico ricevuto in eredità.
Dire come stanno le cose
Il governo deve avere il coraggio di dire la verità, di dire come stanno le cose, rivendicare i meriti delle cose fatte (jobs act prima di tutto, taglio del costo del lavoro Irap, riduzione dell’Ires dal 2017, ammortamento fiscale, legge sui macchinari e altro) e fare autocritica per gli 80 euro, i bonus culturali ai diciottenni e la politica “elettorale” sottostante che non hanno dato comunque i risultati auspicati sui consumi, come era peraltro facilmente intuibile. Bisogna avere il coraggio di fare tutto ciò per non cedere a nuovi scambi al ribasso, e dilapidare ulteriormente il capitale della fiducia, ma soprattutto per essere credibili in casa e fuori in modo da chiamare tutti, forze politiche, impresa e sindacato, alle proprie responsabilità dentro un rinnovato spirito di coesione. Per fare ripartire per davvero l’economia italiana e rimettere in carreggiata l’Europa, c’è disperato bisogno della “pazienza” e della capacità di fare di quella classe politica di allora. Perché, è vero, che i tornanti della nuova transizione non li percorrono più i “carri”, ma automobili più veloci e tecnologiche, è anche vero, però, che non meno di quelli si possono ribaltare, anzi possono incendiarsi o finire nei burroni.
Il deficit di leadership europea
C’è un deficit di leadership politica che l’Europa deve saper colmare, assolutamente in fretta, e una crisi di credibilità italiana che va superata con la fatica del lavoro quotidiano, la serietà dei comportamenti, la visione e l’energia necessarie per dare un contenuto effettivo al cambiamento, conseguire finalmente risultati che si possono vedere e toccare con mano. Non esistono alternative o scorciatoie a questo nuovo percorso di guerra, prima lo si comprende e ci si attrezza, meglio è. Siamo ancora in tempo per correggere errori, mettere a frutto il buono già realizzato, e fare bene cose nuove necessarie, ovviamente difficili, esattamente come quelle che fece De Gasperi. Bisogna volerlo, premunirsi di “pazienza”, e evitare che il “carro” si rovesci.
Roberto Napoletano (Il Sole 24 Ore)
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