Milano 26 Agosto – Le calamità naturali sono disastri imprevedibili. Ci ricordano dolorosamente che il controllo che pensiamo di avere sulle nostre esistenze è solo un’illusione: le nostre fortune sono date in minima parte dall’autodeterminazione, per tutto il resto decide un’entità superiore che dà e toglie senza criterio (si chiami Caso, o Destino, o Dio; a ognuno il proprio atto di fede). L’ultima che ha colpito il Centro Italia ha distrutto interi paesi e intere famiglie. Il bilancio, per adesso, è di circa 250 vittime, 400 feriti e migliaia di sfollati. Tanti borghi e paesini non esistono più, sono solo pezzi di muratura, polvere e calcinacci. Non possiamo certo dare una spiegazione (se non quella geologica), ma non siamo esentati dall’approfondire, indagare eventuali responsabilità umane, distrazioni, errori, seguire e valutare le operazioni di soccorso, diffondere le iniziative di solidarietà. In una parola: fare informazione. Ora più che mai, è un dovere e una responsabilità.
Abbiamo a disposizione, per la prima volta nella storia, mezzi eccezionali: twitter per le notizie in diretta, facebook per il safety check (applicazione che si attiva in caso di calamità, e permette di far sapere ai propri amici di non essere rimasti coinvolti), ma soprattutto la buona vecchia televisione -vero media di massa- con i canali dedicati all’approfondimento di cronaca con talk show, telegiornali, servizi e interviste 24 ore su 24. Ma sono strumenti potenti, difficili da maneggiare. Alla prova con queste catastrofi, mostrano la loro ambiguità: da un lato consentono di avere un’informazione costantemente aggiornata e approfondita, dall’altro si amplifica mostruosamente tutta la parte della “televisione del dolore”. Gli occhi sempre puntati sulle zone terremotate registrano senza pietà ritrovamenti di morti, reazioni disperate di parenti, feriti gravi. Vanno a frugare tra le macerie in cerca della storia più toccante da dare in pasto al pubblico. E così, insieme alle notizie vere, i soliti “come si sente adesso che non ha più una casa?”, zoom su volti straziati, riprese di dettagli toccanti (di solito riguardanti bambini). Solita musica ma drasticamente dilatata, con ore e ore di diretta. La tragedia di Vermicino del 1981, tragedia umana e tragedia della morte come bene di consumo, è diventata normalità.
Non si può tornare indietro: l’esempio appena citato mostra che la faccenda affonda le proprie radici nel tempo e nell’animo umano. Una certa dose di voyeurismo durante le tragedie collettive è deprecabile ma, purtroppo, inevitabile. Sarebbe destinata al fallimento la proposta utopica di opporre codici di etica e barriere in generale, come è inutile il rimpianto dei bei tempi: ben venga lo sviluppo dell’informazione. Ma proprio dall’etica possiamo partire. Non imponendo una legge morale ma scegliendo addetti ai lavori validi, singole persone che abbiano dentro di sé il senso del limite. Che stoppino dirette impietose, scelgano di non mandare in onda certe notizie, o di non far vedere certe immagini: in poche parole, che sappiano discernere cosa è informazione e cosa è spettacolo.
Francesca del Boca
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