Milano 29 Agosto – Quando non si tratta di tsunami o di frane, quasi sempre non sono i terremoti a uccidere gli uomini, ma le strutture costruite male dall’uomo. Da questa amara constatazione bisogna ripartire ogni volta che un sisma miete vittime nel nostro paese. Cioè ogni pochissimi anni, visto che siamo un paese interessato da forti rischi sismici, regolarmente studiati e censiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. E ogni 6-7 anni registriamo un evento di magnitudo fino a 6. La zona del Lazio, Umbria e Marche colpita ieri dal terremoto di magnitudo 6 rientra nella zona 1 della classificazione sismica, la più alta. Eppure, a ogni schiera di morti è come se la lezione non l’avessimo mai imparata.
Come ha detto il sismologo Massimo Cocco dell’INVG, in una zona di rischio 1 “tutti gli edifici nuovi devono essere costruiti seguendo regole adeguate, e quelli più vecchi devono essere messi in sicurezza”. In questo paese abbiamo perseguito penalmente i sismologi per non aver saputo predire il terremoto dell’Aquila in un processo che fatto ridere il mondo, ma alle cose serie documentate da decenni dalla comunità scientifica italiana no, continuiamo a non dare retta. O meglio: i criteri antisismici per gli edifici nuovi esistono per legge dal 2009, mentre la classificazione delle classi di rischio per gli edifici pre-esistenti cioè il 99%, elaborata da un’apposita commissione, si è persa al momento nel passaggio di consegne tra l’ex ministro Lupi e quello attuale.
Oltre al dolore per le vittime e alla solidarietà per tutti i colpiti, e al massimo del sostegno a tutte le forze dello Stato e del volontariato che ieri si sono adoperate da subito nell’area a cavallo tra la provincia di Rieti e di Ascoli Piceno, ieri la prima reazione è stata appunto quella dell’insofferenza, nel pensare che paesi del mondo interessati da analoghi rischi tellurici da decenni hanno messo in atto una vera rivoluzione nell’edilizia, mentre da noi ci si continua ad affidare al fato.
Facciamo un solo esempio, di quanto amara possa essere la conseguenza del nostro incredibile atteggiamento nazionale. Tra il 14 e il 16 aprile scorso la prefettura di Kumamoto in Giappone è stata colpita da un terrificante sciame di scosse telluriche, oltre mille, con le due punte massime a 6,2 e 7 gradi di magnitudo. La prima delle due è del tutto paragonabile a quella che ieri ha devastato Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Una magnitudo 6 equivale, nella scala Richter, all’energia sprigionata dall’esplosione entro 100 km di un milione di tonnellate di tritolo, e per capirci la bomba di Hiroshima equivaleva solo a 13mila tonnellate. Una magnitudo 7, poiché le scale sono logaritmiche, equivale invece all’esplosione di 31,6 milioni di tonnellate. Di scosse di magnitudo 6, come quella che ha colpito il centro Italia ieri, se ne registrano in media 120 l’anno sul nostro pianeta. Di magnitudo 7, solo 18. L’area interessata dal sisma giapponese ad aprile ha oltre 2 milioni di abitanti, di cui 800mila nel solo capoluogo Kumamoto. Eppure, malgrado l’alta densità antropica e un sisma tanto più potente di quello che ha colpito l’Italia ieri, le vittime giapponesi furono solo 49. Mentre da noi il bilancio è ancora purtroppo non definitivo: in un’area in cui i residenti complessivi nei diversi piccoli Comuni colpiti sono poche decine di migliaia, non milioni come in Giappone.
Eppure ieri è bastato dirlo, che dovremmo fare anche noi col nostro patrimonio edilizio quel che da decenni fanno Giappone e California, per scatenare un’ondata di riprovazione. Poi rintuzzata dal parere accreditato di geologi e sismologi, che naturalmente hanno battuto sullo stesso punto. Ma, in generale, la convinzione diffusa resta che no, noi non possiamo credere di poter fare come altri paesi, perché noi abbiamo centri storici e piccoli paesi che sono il frutto di un’evoluzione bimillenaria, mica possiamo radere al suolo e ricostruire come fanno gli altri.
E’ una convinzione sbagliata. L’alternativa irrazionale è tra radere al suolo e morire sfidando il fato. Quella razionale è tra il mettere finalmente mano a un enorme piano pluriennale di messa in sicurezza del patrimonio esistente – sì, anche quello storico, di edifici che hanno uno, due, o magari tre-quattro secoli – e di radicale ottemperanza ai criteri antisismici per le costruzioni nuove. In caso contrario, ricordarsi bene che la colpa delle vittime è nostra.
Anche perché poi non è affatto vero che a crollare e a far vittime siano solo gli edifici in pietra grezza, legno e vecchia calce e cartongesso dei paesini collinari e montani. Nei terremoti italiani ogni volta se ne scendono a pezzi i palazzi dello Stato edificati pochi anni, o al massimo 2-3 decenni fa. Ricordate la strage di San Giuliano di Puglia, il 31 ottobre 2002, quando sotto i mattoni della scuola completamente distrutta da una scossa di magnitudo 6 morirono 27 bambini e una maestra? Non vi è tornato in mente, osservando ieri le immagini devastate dell’ospedale di Amatrice, inagibile per le scosse malgrado risalga alla fine degli anni Settanta? E malgrado sia stato destinatario di fondi anche per la messa in sicurezza dopo il sisma dell’Aquila del 2009, fondi naturalmente non spesi e dunque senza realizzare le opere di consolidamento previste? E della scuola rimessa in sicurezza e reinaugurata nel 2012 ma ugualmente crollata, ne vogliamo parlare?
La strage di San Giuliano ha visto condannati fino alla Cassazione i responsabili: non la natura aspra e matrigna coi suoi terremoti, ma i costruttori e progettisti, il tecnico comunale e il sindaco dell’epoca, che di quella scuola non a norma portavano la colpa. Da allora, c’è stata una radiografia nazionale dell’intero sistema di edifici pubblici sanitari, svolta dalla Commissione che ha consegnato i lavori a febbraio 2016 (vedi qui da pag. 30), da cui abbiamo appreso che il 75% degli oltre mille presidi sanitari italiani corre il serio rischio di crollare, in presenza di scosse di magnitudo 6 come quella che ieri ha preteso nuove vittime. L’ordine dei geologi a ogni inizio anno scolastico ricorda che nel nostro paese sono 24mila le scuole ad alto rischio sismico, e 7mila a rischio idrogeologico. Ma nell’osservatorio per l’edilizia scolastica, che esiste da 20 anni, i geologi non ci sono.
L’ordine di grandezza dei danni patiti dall’Italia per eventi sismici e idrogeologici dal dopoguerra a oggi – sisma di ieri escluso, ovviamente – è di 250 miliardi di euro, stimatodall’ANCE (4 anni fa, per questo va arrotondato). Solo dal Belice a oggi lo Stato direttamente ha speso circa la metà, ma bisogna aggiungere le spese dei privati. Con oltre 4500 vittime se solo ci limitiamo agli ultimi 40 anni, dal terremoto del Friuli a quello dell’Irpinia, fino all’Aquila nel 2009 e all’Emilia nel 2012.
E’ verissimo. Per lo Stato la messa in sicurezza di decine di migliaia di propri edifici comporterebbe costi elevati. Molto più elevati ancora i costi poi per l’intervento sul patrimonio immobiliare privato, intervento che dovrebbe essere incentivato da potentissimi sgravi fiscali. Interventi che dovrebbero essere realizzati anche evitando l’azzeramento del valore in portafoglio alle famiglie, e da una politica ossessivamente volta all’assicurazione degli immobili contro il rischio sismico e idrogeologico, assicurazione non obbligatoria ma fortemente incentivata fiscalmente, visto che farebbe risalire il valore di un immobile “storico” certificato come ad alto rischio sismico, finché i privati non realizzassero i lavori di messa in sicurezza (anch’essi fiscalmente da super-incentivare) .
Diciamo che, come ordine di grandezza, secondo ingegneri e geologi siamo nell’ordine di 80-90 miliardi di euro, per un programma ventennale da 4-5 miliardi di euro l’anno. Ma quando si ha alle spalle un bilancio di sangue e finanziario così disastroso per non averlo fatto, continuare a non farlo è da imbecilli. E se abbiamo dato di colpo 10 miliardi per il bonus 80 euro, interrogarsi per favore su cosa sia più urgente, prioritario ed economicamente efficiente. Oltretutto, sommando la dorsale appenninica, la sua propaggine nel nord della Puglia e l’intera Calabria fino a inglobare Messina (dove nel 1908 si stima che morirono oltre 80mila persone) stiamo parlando complessivamente di non oltre un sesto della popolazione italiana,mentre residenti nelle zone ad altissimo rischio sono solo 3 milioni (vedi ripartizione qui della popolazione per fasce di rischio, effettuata dal centro studi del consiglio nazionale dei geologi). Ci sarebbe anche l’emergenza delle centinaia di migliaia di persone assiepate in abitazioni presso il Vesuvio dove non dovrebbero stare, ma è oggettivamente un problema diverso anche se serissimo.
Nessuno può immaginare che ci vogliano pochi mesi o un paio d’anni. Dev’essere una scelta decennale, da presentare in Europa come una priorità assoluta. E del resto, l’Unione Europea per prima s’inventò nel 2002 il FSUE, il fondo di solidarietà contro le calamità naturali, a seguito delle inondazioni che allora avevano colpito il centro Europa (da cui abbiamo attinto più di 3 miliardi). Non è vero neanche che vi siano veti invalicabili nel Fiscal Compact a queste spese, come subito ieri hanno preso a gridare i militanti dell’entieuropeismo: nel Fiscal Compact, e nelle sue interpretazioni autentiche date dalla Commissione Europea, sta scritto esplicitamente Stati contraenti possono deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine di rientro del deficit pubblico al ricorrere di circostanze eccezionali e per eventi imprevedibili (oltre che in caso di grave recessione), e le calamità naturali rientrano esattamente in tale definizione. Coerentemente sta scritto al comma 2 dell’articolo 81 (rivisto) della nostra Costituzione che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”.
Ovvio che nell’eccezione al deficit contrattato con l’Europa rientrino le spese per fronteggiare l’emergenza, i salvataggi, la messa in sicurezza dei crolli, l’assistenza agli sfollati, il ripristino delle infrastrutture. Non invece il complesso di interventi decennali per la messa in sicurezza dell’intero patrimonio edilizio nelle aree a maggior rischio sismico del nostro paese. Quella deve essere presentata e contratta in Europa come una vera e propria “grande riforma” strutturale. Perché i suoi costi sono minori di quanto spendiamo altrimenti per far fronte a distruzioni e morti. Noi, come paese più sismico e a rischio idrogeologico della UE (nel primo fattore insieme alla Grecia, sommando i due purtroppo la battiamo), dobbiamo provarci seriamente, a convincere i partner del fatto che non possiamo continuare a morire per colpa nostra. Il punto è crederci, volerlo intensamente, metterlo al centro dell’agenda nazionale. E controllare poi maniacalmente come si effettuano i lavori, visto che le procure continuano a istruire processi sui lavori pubblici da latrocinio dopo i quali le opere crollano comunque. Non commettiamo ancora una volta l’errore di affidarci ai tarocchi. E teniamo bene a mente il disastro del post terremoto Irpinia: negli anni i 36 Comuni inizialmente colpiti divennero 687, l’8% del totale dei Comuni italiani, e si è finito per spendere 70 miliardi di euro di cui 17 solo a Napoli, confondendo terremoti con assistenzialismo elettorale.
Oscar Giannino (Leoni Blog)
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