Milano 2 Settembre – Milano è una città che, forse per la vocazione “pratica” che l’ha sempre contraddistinta e ne ha sempre permeato le vicende storiche, non ha mai dato lasciato troppo spazio a storie, miti e leggende, a differenza, per esempio, della vicina (e rivale) Torino, considerata città della magia da tante credenze, nonché sede delle famose e misteriose “grotte alchemiche”.
Qualche leggenda, però, c’è anche nella concreta Milano.
Per esempio, la maggior parte dei milanesi ignora che la storia di quello che oggi è il loro municipio, l’elegante e signorile Palazzo Marino, si intreccia con la leggenda e, addirittura, si accompagna a una maledizione.
Infatti, secondo la versione leggendaria, il commerciante e banchiere genovese con ben pochi scrupoli Tommaso Marino, una sorta di speculatore ante litteram, giunto a Milano per raccogliere la ricca eredità del fratello nel 1546, nel 1553, alla veneranda età di settantotto anni, si invaghì della nobile veneziana, forse ospite dell’ambasciatore a Milano della Repubblica Veneta, Arabella Cornaro.
Marino a Milano, per gli affari che trattava, quasi mai puliti, e per i modi in cui li trattava (in genere, nella migliore delle ipotesi, con l’ausilio di “bravi” violenti e senza scrupoli…), godeva di una pessima fama che, ben presto, si tradusse in odio da parte dei cittadini meneghini.
Il padre di Arabella, pertanto, negò al Marino la mano della giovanissima e bella figlia e, come giustificazione, addusse quella secondo la quale a Milano non esistesse un palazzo così lussuoso da esser degno della bellezza e della nobilità della giovane.
Marino, che non era abituato a ricever dinieghi, ma, al contrario era solito prendersi qualsiasi soddisfazione, costasse quel che costasse, fece rapire la giovane Arabella e, per accontentarne il padre e dimostrare di esser comunque all’altezza delle aspettative di questi, decise di far costruire a Milano un palazzo che non avesse rivali in ricchezza, bellezza e prestigio.
Acquistò, spesso ricorrendo alla forza e alla prevaricazione, le case nella zona che oggi è occupata da Palazzo Marino per farle demolire, attirandosi ancora maggior disprezzo da parte dei milanesi che lo consideravano uno spietato tiranno, ingaggiò l’architetto Alessi, che aveva lavorato a Genova e che da quel momento avrebbe iniziato a lavorare molto anche a Milano (perfino per la Veneranda Fabbrica del Duomo) e diede inizio alla costruzione di quella che sarebbe diventata prima la residenza sua e della sua numerosa famiglia e poi, dopo alterne vicende e numerose vicissitudini, a partire dal 1861, il Municipio di Milano.
Ma i milanesi continuarono a non apprezzare lo sfarzo, spesso arrogante, e la prepotenza dei Marino, così quel lussuoso palazzo che stava crescendo nel cuore della città, all’epoca davvero unico per opulenza, era mal tollerato, al punto che i milanesi arrivarono a maledirlo insieme al suo padrone:
“Congeries lapidum, multis constructa rapinis
aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet”,(Accozzaglia di pietre, costruita grazie a molte ruberie
o brucerà, o cadrà, o sarà rubata da qualche altro ladro), iniziarono a dire in città, mentre Marino e i suoi famigliari circolavano su carrozze ricoperte interamente d’oro e proseguivano con i loro affari.
La maledizione andò a segno, perché Tommaso, sempre secondo la leggenda, arrivò ad uccidere Arabella, che fu trovata impiccata al baldacchino del suo lussuoso letto, e morì solo e indebitato.
Ma non basta, perché Palazzo Marino fu fatale anche per la nipote Marianna, figlia di Virginia Marino e Martino de Leyva (nobile spagnolo e signore di Monza), nata e cresciuta proprio a Palazzo Marino.
Infatti, Virginia morì solo un anno dopo averla data alla luce, lasciando per testamento la metà del quartiere del Palazzo di cui era divenuta proprietaria in seguito alla morte di Tommaso proprio alla figlia. Tuttavia, la vicenda ereditaria sfociò in un complesso contenzioso giudiziario con altri parenti di Virginia, il quale si concluse con un accordo, caldeggiato dallo stesso Martino, padre di Marianna, molto svantaggioso nei confronti della figlia. La quale, alcuni anni dopo, fu instradata controvoglia alla vita claustrale, secondo alcune versioni proprio evitare ogni sua pretesa sulla proprietà di un quartiere di Palazzo Marino. La vita in convento di Marianna sarà segnata da un gravissimo scandalo che la porterà a vivere murata per quattordici anni e a ricever tragica e imperitura fama come “Monaca di Monza”.
In realtà, la storia probabilmente è andata un po’ diversamente: Tommaso iniziò nel 1552 la costruzione della sua nuova residenza semplicemente perché l’abitazione a San Fedele utilizzata fino a quel momento e che fu del fratello doveva risultare insufficiente per la sua numerosa famiglia, oltre che, probabilmente, inidonea al lusso nel quale riteneva di dover vivere.
Ma soprattutto, con molta probabilità, non fu lui a macchiarsi di uxoricidio, semmai fu suo figlio Nicolò, il quale sembra avesse ucciso per gelosia la moglie spagnola, creando poi non pochi problemi ai Marino, al punto che Tommaso dovette diserderalo e rischiò perfino la galera per essersi rifiutato di consegnare la nipote, figlia di Nicolò (le cui sorte non è mai stata definitivamente chiarita), alla famiglia materna.
Marino evitò la prigione, ma la vicenda gli alienò le simpatie della corona spagnola che non volle riconoscergli numerosi crediti, circostanza che portò brevemente alla sua rovina e anche a quella della figlia Virginia, che sposò Martino de Leyva proprio per correre ai ripari, mentre probabilmente Marianna fu obbligata a farsi Monaca perché la cosa era comune all’epoca e non tanto per evitare rivendicazioni su Palazzo Marino, visto che la controversia ereditaria si era chiusa anni addietro.
Mentre la storia di Arabella Cornaro, con tutte le numerose conseguenze, probabilmente, è solo leggenda. Però, i milanesi continuarono per secoli a raccontarla, con una filastrocca, a tratti intraducibile, che ne narrava la vicenda insieme alle prodezze di Tommaso Marino e dei suoi bravacci, i quali “picchiavano i poveretti con armi decorate dagli stemmi del Conte Marino, composta da una mazza e tre pesciolini”:
“Ara, bell’Ara, discesa Cornara
de l’or del fin
del Cont Marin
strapazza bardocch
drent e foeura trii pittoch
trii pessitt e ona massoeura,
quest l’è drent e quest l’è foeura”.
La storia di Tommaso e la leggenda di Arabella divennero così famose che Carlo Porta, il noto poeta dialettale milanese vissuto a cavallo tra la prima metà del settecento e la seconda dell’ottocento, quindi a quasi tre secoli dalle vicende di Marino, nel suo spassoso tentativo, mai concluso, di tradurre in dialetto meneghino niente meno che la Divina Commedia (realizzò solo alcuni brani dei primi sette canti dell’Inferno), sostituì il misterioso e intraducibile verso dantesco “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!”, con cui si apre il settimo canto dell’Inferno, con il primo verso della filastrocca, evidentemente allora ancora popolare, che narrava il rapimento di Arabella da parte di Tommaso: “ara bell’ara discesa cornara” (Arabella discendente della famiglia Cornaro).
Milanese di nascita (nel 1979) e praticante la milanesità, avvocato in orario di ufficio, appassionato di storia, Milano (e tutto quel che la riguarda), politica, pipe, birra artigianale e Inter in ogni momento della giornata.
Mi improvviso scribacchino su Milano Post perché mi consente di dar sfogo alla passione per Milano e a quella per la politica insieme.