Apple, ora l’Europa non faccia l’errore di attentare alla competizione fiscale

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Milano 5 Settembre – La vicenda Apple dimostra come l’azione istituzionale dell’Unione europea sia drammaticamente scomposto. La decisione della Commissione europea di perseguire la Apple per violazione delle norme concorrenziali europee ha il sapore amaro del centralismo e del dirigismo fiscale. Il massimo organo delle istituzioni europee ha, infatti, dato origine a un paradosso politico di una certa rilevanza: tutelare la concorrenza tra imprese praticando il centralismo fiscale. Vediamo perché.

La multinazionale americana non ha violato alcuna norma, ma avuto accesso a un trattamento fiscale privilegiato per volontà irlandese. Il risultato è che la Apple, rispetto alle altre imprese che operano nell’Unione europea, ha avuto un regime fiscale decisamente agevolato. Questo squilibrio ha determinato l’intervento della Commissione che ha giudicato quel regime fiscale irlandese troppo favorevole all’azienda derubricandolo come aiuto di Stato. E qui risiede il problema concettuale.

La gestione dell’imposizione fiscale è una competenza nazionale. La sovranità fiscale è gestita direttamente dagli Stati-nazionali come stabilito nei trattati i quali sono liberi di scegliere il proprio livello di tassazione. Una scelta perfettamente coerente con la teoria politica del federalismo in cui più Stati decidono di unire alcune competenze, ma di lasciare in concorrenza delle altre. Gli effetti benefici del federalismo fiscale sono noti: minore centralizzazione, maggiore controllo dei cittadini sull’utilizzo del denaro da parte delle classi politiche più prossime al loro territorio, possibilità per imprese ed individui di muoversi dove la legislazione fiscale è maggiormente conveniente. Sono principi alla base dei due grandi sistemi veramente federali del nostro tempo: gli Stati Uniti d’America e la Confederazione Svizzera. La possibilità di scegliere dove produrre e dove fissare la sede è particolarmente importante, come sottolinea il giurista di Yale Ilya Somin nel suo libro Democracy and Political Ignorance, perché innesca un circolo positivo di competizione fiscale in cui i vari Stati coinvolti saranno incentivati a creare un ambiente favorevole allo sviluppo delle imprese e alla produzione di ricchezza. La concorrenza fiscale è uno dei principi fondamentali di qualsiasi ordinamento federale funzionante e che la Commissione europea intervenga a favore dell’armonizzazione, si legga centralizzazione, dell’imposizione fiscale è un errore grave sia a livello politico che economico.

La concorrenza fiscale è uno dei principi fondamentali di qualsiasi ordinamento federale funzionante e che la Commissione europea intervenga a favore dell’armonizzazione, si legga centralizzazione, dell’imposizione fiscale è un errore grave sia a livello politico che economico

A maggior ragione, l’errore della centralizzazione fiscale risulta evidente quando si guardano i dati dei singoli Paesi europei perché si rischia di omologare la pressione fiscale a rialzo invece che a ribasso. Secondo la classifica della Banca Mondiale, l’Italia guida la classifica mondiale del total tax rate sulle imprese con il 64,8 per cento. Seguono immediatamente la Francia, il Belgio e l’Austria, poco dietro la Spagna e la Grecia. Un’armonizzazione fiscale, che ponga fine alla concorrenza, penalizzerebbe i Paesi con tassazione virtuosa sulle imprese come l’Irlanda. Non solo, ma la stessa Irlanda incassa il 30% delle proprie imposte dalle imprese (la media Ocse è del 9%) pur avendo un regime di tassazione tra i più favorevoli al mondo. Un effetto dovuto all’aumento degli investimenti esteri e dall’allargamento della base imponibile con una ricaduta positiva sull’intero andamento economico.

In sintesi, cosa non dovrebbe fare l’Unione europea e cosa, invece, potrebbe fare in materia fiscale? Non dovrebbe attentare al principio della competizione fiscale, a maggior ragione se intende rafforzare le proprie istituzioni in senso federale, come ha fatto nel caso Apple. Non dovrebbe cioè mai imporre un limite al ribasso della tassazione sulle imprese. Così come non dovrebbe porre limiti, ad esempio, alla deregolamentazione del mercato del lavoro. Potrebbe, però, mettere un freno a certe disparità di trattamento a livello regolamentare. Dovrebbe, infatti, imporre un criterio unico alle imprese che operano nel mercato unico per quanto riguarda l’identificazione della sede di tutte le società di un gruppo multinazionale. È giusto che la Apple possa scegliere in quale dei 28 Paesi piazzare la propria sede fiscale e scegliere il regime nazionale più conveniente. È altresì opportuno, però, che le regole siano uguali per tutti e non esistano società senza sede fiscale. D’altronde, perché una piccola o media impresa europea dovrebbe subire un regime fiscale così diverso da quello di una super multinazionale capace di avvalersi di risorse tecniche, umane ed economiche che permettono di godere di costruirsi vantaggi fiscali così ampi grazie a regole a geometria variabile? Un’ultima postilla: niente retroattività delle norme fiscali. Qualora l’Europa decida di cambiare le regole sulle sedi fiscali che valgano dal giorno dopo senza chiedere alle imprese quelle di tutti gli anni precedenti, in cui l’Europa ha dormito rispetto al problema. Il discorso, di fondo, è sempre lo stesso: il mercato si nutre di due alimenti che sono la concorrenza e la rule of law, cioè l’eguaglianza delle regole e di fronte alle regole, e attentare all’uno, all’altro o ad entrambi significa distruggere l’unico solido pilastro su cui la sgangherata Unione Europea si regge.

Lorenzi Castellani (LINKIESTA)

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