Milano 13 Settembre – Esattamente 2.600 assegni, per un costo totale di circa 190 milioni di euro per il 2016. Sono i numeri dei vitalizi parlamentari. L’istituto nacque, nella prima legislatura della Repubblica, con una buona intenzione: far sì che gli eletti avessero di che mantenersi anche dopo il mandato, così da esercitarlo liberi da condizionamenti esterni, e permettere anche a chi fosse meno abbiente di essere eletto e non preoccuparsi troppo per il futuro. Poi si sa come è andata a finire. Sia sul principio dei condizionamenti esterni, sia sul rapporto tra vitalizio e trattamento di un lavoratore comune, considerando che il sistema dei vitalizi seguiva una regolamentazione stabilita in «autodichia» da Camera e Senato. Il vitalizio, dunque, veniva in parte alimentato da un prelievo sull’indennità del singolo parlamentare che si aggirava attorno l’8,6%. Per poter accedere all’assegno (circa 3.000 euro dopo i cinque anni), tuttavia, occorreva raggiungere una data soglia di età, tra i 60 e i 65 anni. La forbice dipendeva dal numero di mandati: se se ne era svolto uno solo, infatti, si poteva accedere al vitalizio a 65 anni. Man mano che se si superava quel primo mandato, la soglia scendeva per ogni anno di ulteriore permanenza al Parlamento. Tuttavia dal 2012, sotto le presidenze Fini e Schifani, è stato introdotto il regime contributivo, pur fatto salvo il principio «pro-rata», in sostanza non retroattivo. Il nuovo regime è meno vantaggioso rispetto al precedente ma tuttavia lo è sempre di più rispetto a un lavoratore normale (cui, ad esempio, la legge Fornero fissa a 66 anni e 7 mesi l’età pensionabile). Il vecchio sistema, inoltre, se tradotto in numeri crea un certo colpo d’occhio. Uno studio di Emilio Rocca dell’Istituto Bruno Leoni, risalente al luglio 2011, compiva una simulazione per capire il rapporto tra rendite e prelievo per ottenere il vitalizio: «Si consideri un politico di 45 anni – scriveva Rocca – che resti in carica per 5 anni, non di più. Versa contributi ogni mese per i 5 anni pari a 1006,51 euro. Se riesce a terminare il mandato, matura il diritto di ottenere ogni mese, dai 65 anni in poi, una pensione di 3.108 euro. Considerando – proseguiva – che la vita media di un uomo italiano è pari a circa 78 anni, ci si attende che potrà godere di questa pensione per 13 anni. Attualizzando i flussi di contributi e di pensioni all’inizio della sua attività lavorativa, con un tasso di sconto del 2%, si ricava il NPVR (il rapporto tra valore delle pensioni e il valore dei contributi, ndr): 533%». E dunque, osservava Rocca, «ai politici verrà restituito 5 volte tanto quello che essi stessi hanno versato sotto forma di contributi previdenziali». L’indice, calcolava Rocca, per un lavoratore dipendente era pari a 102%, «praticamente quello che ha versato». Sulle differenze tra sistema contributivo dei lavoratori italiani e vecchio sistema si era già pronunciato in passato il presidente dell’Inps: «Applicando le regole del sistema contributivo oggi in vigore per tutti gli altri lavoratori all’intera carriera contributiva dei parlamentari, la spesa per vitalizi si ridurrebbe del 40%, scendendo a 118 milioni, con un risparmio, dunque, di circa 76 milioni l’anno». A Boeri rispose una nota della Camera dei deputati, ricordando che «gli oneri derivanti sia dal nuovo sistema contributivo, che dal sistema dei vitalizi in vigore in precedenza, gravano interamente ed esclusivamente sui bilanci interni di Camera e Senato, e non dall’Inps». A gravare sui bilanci, c’è da ricordare, sono anche gli assegni di reversibilità, attribuiti peraltro con maglie più larghe nei requisiti rispetto ai comuni mortali. Negli ultimi bilanci interni, tra vitalizi e pensioni «pro quota», le reversibilità pesavano per la Camera di circa 25 milioni, al Senato per 18 milioni.
Pietro De Leo (Il Tempo)
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